Fonte https://www.andreabizzocchi.it
Ho sempre avuto una istintiva repulsione, o come minimo diffidenza, nei confronti della tecnologia. Ovviamente la tecnologia presenta, come qualunque altra cosa al mondo, una commistione di caratteri sia negativi che positivi. Ma presenta anche delle caratteristiche ben precise: ad esempio la tecnologia non è tanto l’oggetto tecnologico che ha prodotto, quanto un certo tipo di mentalità e una certa “visione della vita” che quell’oggetto sono arrivati a concepire. Per dire: i popoli della natura non si sono mai sviluppati da un punto di vista tecnico-tecnologico non perché non avessero sufficienti capacità intellettive, ma semplicemente perché l’idea di progresso/sviluppo era del tutto alieno ad una mentalità che viveva “nel tempo” (e non del tempo) e nel “Tutto” (generalizzando, l’unione simbiotica con la Natura e il cosmo, la capacità di immedesimarsi in un animale, in una foglia che cade, in un fiume che scorre, eccetera). Più semplicemente questi popoli “freddi” (come li chiamava Levy Strauss) non hanno mai avuto smanie di “progresso” di alcun genere (tanto meno tecnologico) perché stavano bene così come stavano. A differenza nostra, che ci “agitiamo” a progredire e svilupparci proprio perché non stiamo bene.
Ma veniamo a noi. Ho scritto queste poche righe qualche mese fa seduto su una panca del terminal GreyHound di Port Autorithy (Newark) dopo aver passato quasi due giorni per aeroporti (Bologna, Parigi, Atlanta, Orlando, New York). Ovunque ho visto solo persone a testa bassa smanettare sul loro smartphone; e nessuno, dico nessuno, ridere/scherzare/giocare/parlare con il proprio compagno, con il proprio figlio, con l’amico o con lo sconosciuto vicino di sedia (che una volta era cosa assolutamente normale). Eppure ancora solo dieci anni addietro le cose stavano diversamente, e quando ho cominciato a viaggiare da solo per il mondo (una trentina d’anni fa, che non sono pochi ma non sono nemmeno un’altra era geologica) il viaggio era la quintessenza del conoscere persone e dell’intessere relazioni. Anzi, direi che si viaggiava soprattutto per questo. Ma oramai è così ovunque e la sostanza del discorso è che questi aggeggi che si sono impossessati delle nostre vite (unitamente a tutto il resto è ovvio), sono un formidabile strumento di distruzione del tessuto sociale e di rapporti. E una società che piuttosto che delle molteplici e drammatiche realtà che sta vivendo a diversi livelli si preoccupa del numero dei like della pizza che sta mangiando e condivide in tempo reale su qualche social, è una società che ha poche speranze di combinare qualcosa di buono. Ed è anche una società in cui cooperazione, mutuo aiuto, condivisione, senso di solidarietà, eccetera, scompaiono progressivamente. Perché i valori (si fa per dire) diventano altri.
Che fare? Non credo ci siano soluzioni perché le operazioni di ingegneria sociale (cioè di trasformazione della società dirette dall’alto) sono molteplici e portate avanti in maniera scientifica e impercettibile (vedi tra le altre cose la distruzione della famiglia tradizionale, promozione di genderismo e gravidanze via uteri in affitto, ecc).
Siamo tutti in riprogrammazione e non ce ne rendiamo conto. Siamo, antropologicamente parlando, in una fase di transizione che ci scaricherà direttamente nel postumano. Eppure pochi paiono capirlo. Antropologicamente parlando, non siamo già più esseri umani, che ci piaccia o meno ammetterlo. Qui non si tratta di “salvare l’uomo”, ma di vivere con dignità e semmai di non essere complici di coloro che “l’uomo” lo stanno distruggendo.
Mi sento solo di dire: rendiamoci conto di dove, come umanità, stiamo andando, e mettiamo giù questi strumenti, non usiamoli o quantomeno il meno possibile. La realtà, la vita, l’amore e il cuore, che sono ciò di cui abbiamo bisogno per vivere bene, stanno da un’altra parte. Torniamo alla nostra umanità, che sarà pure molto imperfetta ma che nel suo farci ridere e piangere, gioire e soffrire, amare e a volte anche “odiare”, è pur sempre reale e soprattutto ci fa sentire ed essere “vivi” e non morti come quegli oggetti tecnologici con cui ci relazioniamo costantemente (anche qui si fa per dire. Non ci si può relazionare con qualcosa di morto).
Perché come “a stare con lo zoppo si impara a zoppicare”, a relazionarsi con ciò che è morto ci si spegne e poi si muore. Anche se si è “vivi”.
Ho sempre avuto una istintiva repulsione, o come minimo diffidenza, nei confronti della tecnologia. Ovviamente la tecnologia presenta, come qualunque altra cosa al mondo, una commistione di caratteri sia negativi che positivi. Ma presenta anche delle caratteristiche ben precise: ad esempio la tecnologia non è tanto l’oggetto tecnologico che ha prodotto, quanto un certo tipo di mentalità e una certa “visione della vita” che quell’oggetto sono arrivati a concepire. Per dire: i popoli della natura non si sono mai sviluppati da un punto di vista tecnico-tecnologico non perché non avessero sufficienti capacità intellettive, ma semplicemente perché l’idea di progresso/sviluppo era del tutto alieno ad una mentalità che viveva “nel tempo” (e non del tempo) e nel “Tutto” (generalizzando, l’unione simbiotica con la Natura e il cosmo, la capacità di immedesimarsi in un animale, in una foglia che cade, in un fiume che scorre, eccetera). Più semplicemente questi popoli “freddi” (come li chiamava Levy Strauss) non hanno mai avuto smanie di “progresso” di alcun genere (tanto meno tecnologico) perché stavano bene così come stavano. A differenza nostra, che ci “agitiamo” a progredire e svilupparci proprio perché non stiamo bene.
Ma veniamo a noi. Ho scritto queste poche righe qualche mese fa seduto su una panca del terminal GreyHound di Port Autorithy (Newark) dopo aver passato quasi due giorni per aeroporti (Bologna, Parigi, Atlanta, Orlando, New York). Ovunque ho visto solo persone a testa bassa smanettare sul loro smartphone; e nessuno, dico nessuno, ridere/scherzare/giocare/parlare con il proprio compagno, con il proprio figlio, con l’amico o con lo sconosciuto vicino di sedia (che una volta era cosa assolutamente normale). Eppure ancora solo dieci anni addietro le cose stavano diversamente, e quando ho cominciato a viaggiare da solo per il mondo (una trentina d’anni fa, che non sono pochi ma non sono nemmeno un’altra era geologica) il viaggio era la quintessenza del conoscere persone e dell’intessere relazioni. Anzi, direi che si viaggiava soprattutto per questo. Ma oramai è così ovunque e la sostanza del discorso è che questi aggeggi che si sono impossessati delle nostre vite (unitamente a tutto il resto è ovvio), sono un formidabile strumento di distruzione del tessuto sociale e di rapporti. E una società che piuttosto che delle molteplici e drammatiche realtà che sta vivendo a diversi livelli si preoccupa del numero dei like della pizza che sta mangiando e condivide in tempo reale su qualche social, è una società che ha poche speranze di combinare qualcosa di buono. Ed è anche una società in cui cooperazione, mutuo aiuto, condivisione, senso di solidarietà, eccetera, scompaiono progressivamente. Perché i valori (si fa per dire) diventano altri.
Che fare? Non credo ci siano soluzioni perché le operazioni di ingegneria sociale (cioè di trasformazione della società dirette dall’alto) sono molteplici e portate avanti in maniera scientifica e impercettibile (vedi tra le altre cose la distruzione della famiglia tradizionale, promozione di genderismo e gravidanze via uteri in affitto, ecc).
Siamo tutti in riprogrammazione e non ce ne rendiamo conto. Siamo, antropologicamente parlando, in una fase di transizione che ci scaricherà direttamente nel postumano. Eppure pochi paiono capirlo. Antropologicamente parlando, non siamo già più esseri umani, che ci piaccia o meno ammetterlo. Qui non si tratta di “salvare l’uomo”, ma di vivere con dignità e semmai di non essere complici di coloro che “l’uomo” lo stanno distruggendo.
Mi sento solo di dire: rendiamoci conto di dove, come umanità, stiamo andando, e mettiamo giù questi strumenti, non usiamoli o quantomeno il meno possibile. La realtà, la vita, l’amore e il cuore, che sono ciò di cui abbiamo bisogno per vivere bene, stanno da un’altra parte. Torniamo alla nostra umanità, che sarà pure molto imperfetta ma che nel suo farci ridere e piangere, gioire e soffrire, amare e a volte anche “odiare”, è pur sempre reale e soprattutto ci fa sentire ed essere “vivi” e non morti come quegli oggetti tecnologici con cui ci relazioniamo costantemente (anche qui si fa per dire. Non ci si può relazionare con qualcosa di morto).
Perché come “a stare con lo zoppo si impara a zoppicare”, a relazionarsi con ciò che è morto ci si spegne e poi si muore. Anche se si è “vivi”.
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