mercoledì 20 gennaio 2016

L’ultima intervista di Cioran

CIORAN un grande

Di interviste Cioran ne ha rilasciato parecchie, nonostante la sua “ostentata” misantropia.
Tutte o quasi hanno la caratteristica di essere pregne di una tensione vibrante che li rende estremamente godibili.
Per la prima volta in italiano presento l’ultima intervista prima di essere ricoverato all’ospedale Broca di Parigi (il “triste ospedale parigino” di rue Pascal, 54 di cui ho parlato in questo post), dove trovò riposo eterno il 20 giugno del 1995.
La versione originale è in spagnolo, la traduzione in italiano dall’inglese è di Maria Barresi.

L’ultima intervista a Cioran
(Abstract)
Poco prima di morire a Parigi, nel giugno del 1995, il filosofo rumeno Emile Michel Cioran lasciò questa intervista allo scrittore tedesco Heinz-Norbert Jocks, pubblicata nel 5° numero del Kulturchronik magazine, edito a Bonn da InterNationes.
Vi presentiamo gli estratti più importanti di questa conversazione, in cui l’autore, tra gli altri, di “All Gall Is Divided” [Sillogismi dell’amarezza], “A short history of Decay” [Sommario di decomposizione] e “History and Utopia” [“Storia e Utopia”],  parla della morte, della noia, della sua giovinezza, dello scrittore Samuel Beckett, e del suo approccio alla filosofia.
Cioran è stato uno dei più corrosivi e polemici autori del XX secolo; tenne sotto scacco le pretese razionalistiche e tecnicistiche della civiltà occidentale, così come il dogmatismo religioso. I suoi libri sono scritti con rabbia e bellezza, spesso cedendo al linguaggio poetico, attraverso uno stile aforistico.
Cioran nasce a Rasinari, Romania, nel 1911, ma ancora giovane si stabilisce a Parigi. Considerato un filosofo nichilista radicale, affronta nei suoi testi, con insistenza, i temi della disperazione, della solitudine e del vuoto che circonda l’uomo contemporaneo. Solitamente viene posto accanto a pensatori come Pascal, Kierkegaard e Nietzsche.
Traduzione dallo spagnolo: Reynaldo Damazio
INTERVISTA
Qual è stato il significato della sua vita in Romania, della sua infanzia?
Cioran: la Romania era un paradiso terrestre, isolato da tutto e circondato da schiavi. Andavo  a casa solo per mangiare e dormire, altrimenti passavo il tempo fuori, all’aria aperta, in maniera semplice. Metà del villaggio viveva sulle montagne, i Carpazi. Ho mantenuto l’amicizia con i pastori e li ho ammirati molto. Era un altro mondo, al di là della civiltà. Forse perché vivevano in un paese di nessuno, sempre di buon umore, come se ogni giorno fosse un giorno di festa. Secondo il loro punto di vista, l’inizio del genere umano non doveva essere stato così male.
Quando finì tutto?
Cioran: Nel 1920, a dieci anni, quando dovetti abbandonare il mio villaggio e andare a Hermannstadt [Sibiu], per frequentare la scuola elementare. Non potrò mai dimenticare quel dramma, la disperazione di quel giorno. Mi sono sentito morire. A quel tempo non c’erano auto, quindi ci diede un passaggio un contadino che prese me e mio padre a dorso del suo cavallo. Lo stile primitivo vissuto laggiù mi sembrava l’unico possibile. Ciò che conta è la preistoria, il momento antecedente la presa di coscienza, l’inizio della storia, la vita nell’inconscio. L’umanità deve andare avanti nell’essere ciò che è (risate), per la storia, solo un errore; per la coscienza, un peccato; e per l’essere umano, un’avventura senza pari.
Una riflessione religiosa?
Cioran: Io non sono un ateo, anche se non credo in Dio e non prego. Per me esiste una dimensione religiosa indefinibile, al di là di ogni fede. Il credente si identifica con Dio, che può comprendere, invece io mi sento distante da tutto questo. Mi muovo su una linea di confine. Condivido la grande idea del peccato originale dell’uomo, ma non nel modo in cui si pensa ufficialmente. La storia, come l’essere umano del resto, sono, che noi lo vogliamo o no, il prodotto di una catastrofe. L’idea della deviazione umana è indispensabile per la comprensione dello sviluppo della storia. Secondo questa idea, l’essere umano è colpevole, non in senso morale, ma per aver preso parte a questa avventura. Quando abbandonai il mio villaggio, non ero più un primitivo.
Prima di allora, ero appartenuto alla Creazione, come gli animali, assieme a quelli che ebbero un rapporto personale con me; ora mi son trovato fuori, distante.
Lei discorreva di santi, di “Creazione abortita “, e si è visto in difficoltà?
Cioran: Sì. Mia madre era il presidente della Chiesa Ortodossa di Hermannstadt e mio padre – un buon prete, e anche sincero, ma in alcun modo un uomo di profonda religiosità – in realtà avrebbe voluto fare l’avvocato. Fu molto triste quando lesse il libro Lacrime e Santi, alla fine del 1937, poco prima del mio trasferimento a Parigi. Quando inviai il manoscritto al mio editore rumeno, lui, mio padre, un mese dopo mi chiamò, per dirmi che non poteva stamparlo. Non l’aveva letto lui personalmente, ma uno dei suoi linotipisti; tuttavia mi disse che doveva il suo patrimonio a Dio, e che non avrebbe potuto pubblicare un libro del genere per nulla al mondo. In quel momento, nel pieno dei preparativi del viaggio in Francia, mi chiesi, disperato, cosa potevo fare. In quel frangente, incontrai  un rumeno che aveva collaborato con la Rivoluzione russa e aveva conosciuto Lenin. Mi chiese cosa stesse succedendo, e così gli raccontai la storia e guarda caso lui possedeva una tipografia. Così, il mio libro fu pubblicato sprovvisto di un’etichetta editoriale, poco prima del mio trasferimento a Parigi. Pochi mesi dopo, ricevetti una lettera da mia madre, con la quale mi diceva della vergogna che il mio libro aveva provocato. Anche se lei non era una persona religiosa, si sentiva sotto forte pressione e mi pregò di rimuovere il libro dalla circolazione. Risposi che era l’unica opera religiosa scritta nei Balcani, perché era un balcanico confronto con Dio. Quasi tutti i miei amici ebbero una brutta reazione, soprattutto Mircea Eliade, che scrisse una dura critica, mentre una ragazza che conoscevo mi disse che era il libro più triste che avesse mai letto. È evidente che si trattava di una esperienza religiosa equivoca. Ero così immerso nella vita dei santi che, in verità, avrei dovuto pregare. Ma per questo mi mancava il dono necessario, anche se mi sentivo attratto dai grandi mistici. Tuttavia, la fede religiosa non è mai il risultato di una riflessione, ma qualcosa di molto più – troppo – complicato. La religiosità può essere stupida, ma ha radici molto profonde (risate).
Nel suo lavoro traspare un elogio della vita primitiva.
Cioran: In questo villaggio rumeno dove vivevo, avevamo un orto accanto al cimitero, e, per questo motivo, fin da piccolo divenni amico di un becchino di una cinquantina di anni.
Era un uomo che procedeva con gioia quando doveva scavare una tomba e giocare a calcio con i teschi. Mi sono sempre chiesto come poteva sentirsi giorno dopo giorno così felice. Io stesso, non ero come Amleto, non ero così sconvolto. In seguito, la nostra stretta amicizia subì un cambiamento e si trasformò in un problema. Mi sono chiesto perché abbiamo dovuto vivere tutto questo in vita. Per essere alla fine soltanto un cadavere? Queste impressioni rimasero come segni indelebili. Quell’uomo – che tutti i giorni si confrontava con la morte – si comportava come se non avesse mai visto un morto. Mi piaceva molto quell’uomo. Era sempre sorridente.
La morte è un tema a cui è stato fedele.
Cioran: Fin da subito. È una posizione a cui è legata un altro tipo di intensità. Ho convissuto con la morte, fin da molto giovane. Anche ora che ho più motivi per pensarci, non associo nessuna idea compulsiva alla morte. In gioventù, l’idea che avevo della morte era un’ossessione predominante, giorno e notte. Come un nucleo di realtà, aveva una presenza opprimente, molto distante da tutte le influenze letterarie. Tutto ruotava intorno ad essa, al di là del senso di ripugnanza e paura, seppur in modo patologico. Questo, naturalmente, fu anche il motivo per cui non ho dormito bene durante quei sette anni della mia giovinezza, e dei quali divenni esausto. In quel periodo scrissi “Al Culmine della Disperazione”. Questa insonnia persistente divenne il mio punto di vista sul mondo e il mio atteggiamento nei suoi confronti. Il momento peggiore di questa situazione lo vissi a Hermannstadt, quando vivevo con i miei. Vagai senza meta per la città, di notte. Mia madre piangeva disperata, ed io, che avevo appena compiuto 21 anni, ero sul punto di suicidarmi. Anche oggi io non so perché non lo abbia fatto. E’ possibile che abbia sedato la mia voglia di suicidio con la forza della scrittura. Non avevo la minima concreta idea di cosa fosse la mia vita.
Avete cambiato  idea sulla morte?
Cioran: Non è possibile che uno cambi idea sulla morte. Il problema dell’esistenza costituisce un problema in sé. Al cospetto, tutto il resto perde importanza. Curiosamente, ci sono molte persone che non  pensano alla morte, che non vogliono o non possono pensarci. Quelli che comprendono cosa significhi la morte sono la minoranza. Gli altri mancano di valori e anche i filosofi evitano il problema.
Ma uno filosofeggia sulla morte.
Cioran: Certo, la morte è un tema nella storia della filosofia (risate), ma non intima esperienza di vita. In Baudelaire c’è la morte, in Sartre non c’è. I filosofi hanno evitato la morte trasformandola in una questione, invece di viverla come qualcosa di esistente. Non lo considerano come qualcosa di assoluto, ma tra i poeti è diverso. Essi sentono il fenomeno profondamente, prefigurandola. Un poeta insensibile al tema della morte non è un grande poeta. Sembra esagerato, ma è così.
In una serie di saggi su alcuni amici, Lei ha scritto di Samuel Beckett.
Cosa le piace del suo lavoro?
Cioran: Il fatto di non aver bisogno di eroi, il fatto di aver creato un raro tipo umano e, con esso, aver mostrato un altro genere di umanità. Il suo lavoro, quindi, non è associato a un determinato periodo. È la singolare opera di un singolo individuo.
Non sarà l’essere entrambi affascinati dall’ozio che vi porta ad essere così vicini?
Cioran: L’esperienza della noia, non la noia volgare, per mancanza di compagnia, ma la noia assoluta, è molto importante. Quando qualcuno si sente abbandonato dai propri amici, quello è nulla. La noia vera esiste senza motivo, senza cause esterne. Con essa si ha la sensazione del tempo vuoto, qualcosa di simile alla vacuità, una cosa che conosco da sempre. Ricordo molto bene la prima volta, avevo cinque anni. Allora vivevo in Romania, con tutta la mia famiglia. Improvvisamente, ho avuto la chiara coscienza di ciò che era l’ossessione, la noia.
Erano circa le tre del pomeriggio, quando fui preso dalla sensazione del nulla, della carenza assoluta di sostanza. Fu come se, d’un tratto, tutto fosse scomparso, tutto fosse piombato nella nullità ed è stato l’inizio della mia riflessione filosofica. Questo stato intenso di solitudine mi colpì in modo così profondo che mi chiesi cosa realmente volesse dire. Non essendo in grado di difendermi, né di liberarmene attraverso la riflessione, sicuro che il presentimento sarebbe tornato altre volte, ne rimasi così sconcertato, da accettarlo come punto di orientamento.
Al culmine della noia si sperimenta il senso del Nulla, e, in questo senso, non si tratta di una situazione deprimente, dal momento che, per una persona non credente, rappresenta la possibilità di vivere l’assoluto, qualcosa come l’ultimo istante.

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