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Quando, nel 2011, gli jihadisti attaccarono il suo Paese, la reazione
del presidente Bachar el-Assad fu controcorrente: invece di rafforzare i
poteri dei servizi di sicurezza, li ridusse. Ora, sei anni dopo, la
Siria sta per uscire vincitrice dalla più importante guerra dopo il
Vietnam. Lo stesso tipo di aggressione si sta verificando in America
Latina, che però risponde in maniera molto più canonica. Thierry Meyssan
illustra le differenze di analisi e strategia del presidente Assad, da
un lato, e dei presidenti Maduro e Morales dall’altro. Non è questione
di mettere questi leader in concorrenza fra loro, ma di invitarli a
prescindere dagli indottrinamenti politici e di tener conto delle guerre
più recenti.
L’operazione di
destabilizzazione del Venezuela continua. Nella fase iniziale,
gruppuscoli violenti che manifestavano contro il governo hanno ucciso
dei semplici passanti e persino cittadini che si erano uniti alla loro
protesta. In una seconda fase, i grandi distributori di derrate
alimentari hanno organizzato una penuria di beni nei supermercati. In
seguito, appartenenti alle forze dell’ordine hanno attaccato ministeri,
fatto appello alla ribellione e sono entrati in clandestinità.
La stampa internazionale continua ad attribuire i morti delle
manifestazioni al “regime”, sebbene numerosi video dimostrino che si
tratta di assassinii deliberatamente perpetrati dagli stessi
manifestanti. Fondandosi su queste informazioni menzognere, i media
definiscono «dittatore» il presidente Nicolas Maduro, come fecero sei
anni or sono con Muammar Gheddafi e Bachar el-Assad.
Gli Stati Uniti hanno utilizzato l’Organizzazione degli Stati
Americani (OSA) contro il presidente Maduro, come, a suo tempo,
utilizzarono la Lega Araba contro il presidente el-Assad. Senza
aspettare di essere esclusa dall’OSA, Caracas ne ha denunciato i metodi
ne è uscita.
Ciononostante, il governo Maduro ha subito due fallimenti:
Gran parte dei suoi elettori non sono andati a votare nelle le elezioni
legislative di dicembre 2015, consentendo in tal modo all’opposizione
di ottenere la maggioranza in parlamento.
Si è fatto prendere alla sprovvista dalla penuria di derrate
alimentari, sebbene un’operazione analoga fosse stata in passato
organizzata in Cile, contro Allende, e in Venezuela, contro Chávez. Ci
sono volute parecchie settimane perché il governo riuscisse a
organizzare nuovi circuiti di approvvigionamento.
Con ogni probabilità, il conflitto avviato in Venezuela non si
fermerà alle sue frontiere. Infiammerà tutto il nord-ovest del
continente sudamericano e i Caraibi.
Un passo aggiuntivo sono i preparativi militari in corso in Messico,
Colombia e Guyana Britannica contro Venezuela, Bolivia ed Equador. Il
coordinamento è opera dell’équipe dell’ex Ufficio Strategico per la
Democrazia Globale (
Office of Global Democracy Strategy); unità
creata dal presidente Bill Clinton, continuata dal vice-presidente Dick
Cheney e da sua figlia Liz. Mike Pompeo, attuale direttore della CIA, ha
confermato l’esistenza dell’organizzazione, inducendo la stampa, e poi
il presidente Trump, a parlare di un’opzione militare statunitense
[contro il Venezuela].
L’équipe del presidente Maduro non ha ritenuto, per salvare il
proprio Paese, di seguire l’esempio del presidente el-Assad. Secondo
Maduro e i suoi collaboratori, le situazioni dei due Paesi sono
totalmente differenti. Gli Stati Uniti, principale potenza capitalista,
aggredirebbero il Venezuela per impossessarsi del suo petrolio, secondo
uno schema più volte collaudato in tre continenti. Questa prospettiva è
stata ribadita da un recente discorso del presidente boliviano, Evo
Morales.
È importante ricordare che il presidente Saddam Hussein, nel 2003, e
la Guida Muhammar Gheddafi, nel 2011, nonché numerosi consiglieri del
presidente Assad hanno ragionato allo stesso modo. Hanno ritenuto che
gli Stati Uniti avessero aggredito Afghanistan e Iraq, poi Tunisia,
Egitto, Libia e Siria solo per far cadere regimi che opponevano
resistenza all’imperialismo americano, e poter così controllare le
risorse d’idrocarburi del Medio Oriente allargato. Ancora oggi numerosi
autori antimperialisti insistono in quest’analisi, cercando, per
esempio, di spiegare la guerra alla Siria con l’interruzione del
progetto di gasdotto del Qatar.
Ebbene, un tale ragionamento si è dimostrato falso. Gli Stati Uniti
non cercavano né di rovesciare governi progressisti (Libia e Siria) né
d’impadronirsi del petrolio e del gas della regione, ma di distruggere
Stati, di ricacciare popolazioni nella preistoria, al tempo in cui
«l’uomo era lupo per l’uomo».
I rovesciamenti di Saddam Hussein e di Muhammar Gheddafi non hanno
ristabilito la pace. Le guerre sono continuate nonostante l’insediamento
di un governo d’occupazione in Iraq e poi, nella regione, di governi
cui partecipano collaboratori dell’imperialismo, oppositori delle
indipendenze nazionali. Le guerre continuano, a dimostrazione che
Washington e Londra non volevano rovesciare regimi né difendere
democrazie, bensì conculcare popoli. È una constatazione fondamentale
che stravolge la comprensione dell’imperialismo contemporaneo.
Questa strategia, radicalmente nuova, cominciò a essere insegnata da
Thomas P. M. Barnett dopo l’11 settembre 2001. È stata resa pubblica ed
esposta nel marzo 2003 — ossia appena prima della guerra contro l’Iraq —
in un articolo di
Esquire, poi nel libro eponimo
The Pentagon’s New Map, però è apparsa talmente crudele che nessuno ha creduto potesse essere applicata.
L’imperialismo ha bisogno di dividere il mondo in due: da un lato,
una zona stabile che gode dei benefici del sistema, dall’altro un caos
spaventoso in cui nessuno più pensa a resistere, ma unicamente a
sopravvivere; una zona in cui le multinazionali possano estrarre le
materie prime di cui hanno bisogno senza rendere conto ad alcuno.
Secondo
questa mappa, estratta da un Powerpoint presentato da Thomas P. M.
Barbett nella conferenza tenuta nel 2003 al Pentagono, tutti gli Stati
della zona rosa devono essere distrutti. Questo progetto non ha nulla a
che fare né, sul piano nazionale, con la lotta di classe, né con lo
sfruttamento di risorse naturali. Dopo il Medio Oriente allargato, gli
Stati Uniti si apprestano a ridurre in rovina l’America Latina del
nord-ovest.
Dal XVII secolo e dalla guerra civile britannica, l’Occidente si è
sviluppato nell’ossessione del caos. Thomas Hobbes ci ha insegnato a
sottometterci alla ragione di Stato piuttosto che rivivere il tormento
del caos. La nozione di caos è ricomparsa solo dopo la seconda guerra
mondiale, con Leo Strauss. Questo filosofo, che ha personalmente formato
esponenti del Pentagono, voleva costruire una nuova forma di potere
affondando una parte del mondo nell’inferno.
L’esperienza jihadista in Medio Oriente allargato ci ha mostrato cos’è il caos.
Il presidente el-Assad, dopo aver reagito in modo prevedibile agli
avvenimenti di Deraa (marzo-aprile 2011), ossia inviando l’esercito a
reprimere gli jihadisti della moschea al-Omari, è stato il primo a
capire quel che stava succedendo. Invece di accrescere i poteri delle
forze dell’ordine per reprimere l’aggressione esterna, ha dato al popolo
gli strumenti per difendere il proprio Paese.
Innanzitutto ha revocato lo stato d’emergenza, dissolto i tribunali
speciali, liberalizzato le comunicazioni internet, vietato alle forze
armate di usare armi, qualora, così facendo, innocenti fossero messi in
pericolo.
Queste decisioni, diverse da quanto la logica dei fatti avrebbe
suggerito, implicavano pesanti conseguenze. Per esempio, durante un
attacco a un convoglio militare a Banias, i soldati si sono astenuti
dall’usare armi per legittima difesa. Hanno preferito essere mutilati
dalle bombe degli assalitori, e talvolta morire, piuttosto che sparare
con il rischio di ferire gli abitanti, che li guardavano lasciarsi
massacrare senza reagire.
Come molti all’epoca, anch’io ho pensato che Assad fosse un
presidente debole, che i soldati fossero troppo leali, che la Siria
sarebbe stata distrutta. Tuttavia, sei anni dopo Bachar el-Assad e le
forze armate siriane hanno vinto la scommessa. All’inizio, i soldati
hanno lottato soli contro l’aggressione straniera. Poi, poco a poco,
ogni cittadino si è impegnato, ciascuno secondo le proprie possibilità,
nella difesa Paese. Quelli che non hanno potuto o voluto resistere sono
andati in esilio. I siriani hanno certamente molto sofferto, ma la Siria
è l’unico Paese al mondo, dopo la guerra del Vietnam, ad aver resistito
fino a che l’imperialismo s’è stancato e ha rinunciato.
In secondo luogo, di fronte all’invasione di una moltitudine di
jihadisti provenienti da tutte le popolazioni mussulmane, dal Marocco
alla Cina, il presidente Assad ha deciso di abbandonare parte del
territorio per salvare il proprio popolo.
L’Esercito arabo siriano si è ripiegato nella “Siria utile”, ossia
nelle città, abbandonando campagne e deserti agli aggressori. Nel
frattempo Damasco provvedeva senza interruzione all’approvvigionamento
alimentare in tutte le regioni controllate. Contrariamente a un
preconcetto dell’Occidente, la carestia ha imperversato solo nelle zone
controllate dagli jihadisti e in qualche città da loro assediata; i
“ribelli stranieri” (scusate l’ossimoro) venivano approvvigionati dalle
associazioni “umanitarie” occidentali perché utilizzassero la
distribuzione di pacchi alimentari per sottomettere le popolazione da
loro stessi affamate.
Il popolo siriano ha toccato con mano che a nutrirlo e proteggerlo
era la Repubblica, non i Fratelli Mussulmani e i loro jihadisti.
In terzo luogo, il presidente Assad, in un discorso pronunciato il 12
dicembre 2012, ha delineato come intendeva ricostruire l’unità del
Paese. In particolare ha sottolineato la necessità di redigere una nuova
costituzione e di sottoporla all’approvazione della maggioranza
qualificata della popolazione, quindi procedere a elezioni democratiche
dei responsabili di tutte le istituzioni, incluso il presidente,
ovviamente.
All’epoca gli occidentali si sono burlati del presidente Assad che
pretendeva convocare elezioni in piena guerra. Oggi la totalità dei
diplomatici coinvolti nella risoluzione del conflitto, compresi quelli
delle Nazioni Unite, sostiene il piano Assad.
Mentre i commando degli jihadisti circolavano ovunque nel Paese,
soprattutto a Damasco, e assassinavano uomini politici, anche nelle loro
case e con le loro famiglie, il presidente Assad ha incoraggiato gli
oppositori a palesarsi. Ha garantito la sicurezza del liberale Hassan
el-Nouri e del marxista Maher el-Hajjar per garantirgli la possibilità
di presentarsi alle elezioni presidenziali del giugno 2014. Nonostante
l’appello al boicottaggio dei Fratelli Mussulmani e dei governi
occidentali, nonostante il terrore jihadista, nonostante l’esilio
all’estero di milioni di cittadini, il 73,42% degli elettori ha risposto
alla chiamata alle urne.
In nome dello stesso principio, sin dall’inizio della guerra Assad ha
creato un ministero per la Riconciliazione nazionale, fatto unico in un
Paese in guerra, e l’ha affidato ad Ali Haidar, presidente di un
partito alleato, il PSNS. Haidar ha negoziato e concluso più di un
migliaio di accordi di amnistia di cittadini che avevano preso le armi
contro la Repubblica, che poi sono stati integrati nell’Esercito arabo
siriano.
Durante questa guerra, contrariamente a quanto afferma chi lo accusa
gratuitamente di praticare torture generalizzate, il presidente Assad
non ha mai usato mezzi coercitivi contro il proprio popolo. Non ha mai
imposto l’arruolamento in massa e la coscrizione obbligatoria. Ogni
giovane ha la possibilità di sottrarsi agli obblighi militari. Prassi
amministrative permettono a ogni cittadino maschio di evitare il
servizio militare, se non desidera difendere il proprio Paese con le
armi. Unicamente gli esiliati, che non hanno accesso a queste prassi,
possono trovarsi in situazione d’irregolarità rispetto alle norme.
Per sei anni, il presidente Assad ha costantemente, da un lato, fatto
appello al proprio popolo, responsabilizzandolo e, dall’altro, ha
cercato, per quanto possibile, di nutrirlo e proteggerlo. Ha sempre
corso il rischio di dare prima di ricevere. Ed è per questo che oggi ha
conquistato la fiducia dei siriani e può contare sul loro sostegno
attivo.
Le élite sudamericane sbagliano se intendono proseguire la lotta per
una ripartizione più equa delle ricchezze, che fu dei decenni passati.
Oggi la lotta più importante non è tra maggioranza del popolo e una
piccola classe di privilegiati. La scelta cui si sono trovati di fronte i
popoli del Medio Oriente allargato, e alla quale ora i sudamericani
devono rispondere a loro volta, è difendere la patria o morire.
I fatti lo dimostrano: l’imperialismo contemporaneo non mira più
prioritariamente a fare man bassa delle risorse naturali. Oggi vuole
dominare il mondo e saccheggiarlo senza scrupoli. Mira ormai a
schiacciare i popoli e a distruggere le società delle regioni di cui già
sfrutta le risorse.
In quest’èra di ferro e fuoco, solo la strategia di Assad permette di rimanere eretti e liberi.
Traduzione
Rachele Marmetti
Il Cronista
Fonte
:
“Interpretazioni divergenti in seno al campo antimperialista”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 16 agosto 2017, www.voltairenet.org/article197505.html