Jared Diamond nel Maggio 1987 scrive (Traduzione a cura di Tonguessy)
E’ grazie alla scienza che sono avvenuti significativi cambiamenti nella compiaciuta immagine che avevamo di noi stessi. L’astronomia ci ha insegnato che la nostra Terra non è al centro dell’Universo ma è solo uno degli innumerevoli corpi celesti. Dalla biologia abbiamo imparato che non siamo stati creati così da Dio ma abbiamo subìto delle evoluzioni così come milioni di altre specie. E ora l’archeologia sta demolendo un altro sacro credo: che la storia dell’umanità nel corso dei passati milioni di anni sia una lunga storia di progresso. In particolare recenti scoperte suggeriscono come l’avere adottato l’agricoltura, che si suppone sia stato il nostro maggiore passo verso una vita migliore, fu in realtà una autentica catastrofe da cui non ci siamo mai ripresi.
Con l’agricoltura arrivarono anche le grandi diseguaglianze sociali e sessuali, le malattie ed il dispotismo che maledicono le nostre attuali esistenze. Ad un primo impatto, le prove contro questa interpretazione revisionista sembrano irrefutabili. Ce la caviamo molto meglio in quasi ogni campo rispetto alle persone del medioevo, che a loro volta se la cavavano meglio dei cavernicoli, i quali a loro volta se la cavavano meglio delle scimmie antropomorfe. Basta fare un rapido conto dei vantaggi: abbiamo a disposizione vari cibi in abbondanza, straordinari utensili, molti beni materiali, le vite più lunghe e la salute migliore della storia. Siamo al sicuro da carestie e predatori. Otteniamo energia dalle macchine e dal petrolio, non dal sudore della nostra fronte. Chi sarebbe quindi il neoluddista che vorrebbe scambiare la propria vita con quella di un contadino medievale, di un cavernicolo o di uno scimmione?
Per la maggior parte della nostra storia ci siamo sostentati con la caccia ed il raccolto: cacciavamo animali selvatici e raccoglievamo piante selvatiche. E’ un tipo di vita che i filosofi hanno tradizionalmente descritto come pericoloso, brutale e breve. Dato che il cibo non veniva coltivato o allevato e ne veniva immagazzinato poco, non esiste (in questa prospettiva) tregua alcuna nella lotta quotidiana per procurarsi il cibo ed evitare la morte per fame. Siamo riusciti a scappare da questa miseria solo 10.000 anni fa, quando in diverse parti del mondo le persone iniziarono ad addomesticare gli animali e a coltivare le piante.
La rivoluzione agricola si è diffusa al punto di essere praticata quasi universalmente, con la rara eccezione di poche superstiti tribù di cacciatori-raccoglitori.
Dal punto di vista dell’ideologia progressivista con la quale sono stato educato, chiedersi “Perchè quasi tutti i nostri antenati cacciatori-raccoglitori adottarono l’agricoltura?” è sciocco. Naturalmente i nostri antenati adottarono l’agricoltura perchè è un metodo efficiente per avere più cibo con minor fatica. La semina di piante produce una quantità di gran lunga maggiore per acro di radici e bacche selvatiche. Basta immaginare un gruppo di selvaggi, esausti dopo una giornata alla ricerca di noci ed animali selvatici che improvvisamente si trovano davanti un frutteto con gli alberi carichi di frutta, oppure una mandria al pascolo. Quanti millisecondi pensate servano loro perchè apprezzino gli innegabili vantaggi dell’agricoltura?
La linea del partito progressivista alle volte si spinge fino a dare all’agricoltura tutto il merito dello straordinario fiorire di attività artistiche che ha avuto luogo nelle ultime migliaia di anni. Dato che i raccolti possono essere immagazzinati e dato che ci vuole meno tempo per raccogliere del cibo da un orto piuttosto che raccoglierlo in natura, l’agricoltura ci ha regalato quel tempo che i nostri antenati cacciatori-raccoglitori non ebbero mai. E’ perciò merito dell’agricoltura se oggi abbiamo il Partenone e la Messa in Si minore.
Anche se il punto di vista progressivista sembra schiacciante, resta difficile da provare. Come può essere dimostrato che le vite delle persone che 10.000 anni fa abbandonarono la raccolta di bacche e radici per abbracciare l’agricoltura migliorò? Fino a poco tempo fa gli archeologi dovevano fidarsi di test indiretti, i cui risultati sorprendentemente fallirono di sostenere le tesi progressiviste.
Ecco un esempio di test indiretto: sono i cacciatori-raccoglitori del 20° secolo veramente messi peggio degli odierni agricoltori?
Sparsi nel mondo ci sono alcune dozzine di gruppi di cosiddetti primitivi, come i Boscimani del Kalahari, che continuano a vivere secondo le loro tradizioni. Salta così fuori che queste persone hanno un sacco di tempo libero, dormono un bel po’ e lavorano molto meno dei contadini loro vicini. Per esempio il tempo medio impiegato ogni settimana per procurarsi cibo varia dalle 12 alle 19 ore per un gruppo di Boscimani, e 14 ore o meno per gli Hazda nomadi della Tanzania. Un Boscimane a cui era stato chiesto perchè non imitasse lo stile di vita di altre tribù che avevano adottato l’agricoltura, rispose: “E perchè mai dovrei, visto che ne sono anche troppi di balenghi in questo mondo?”
Mentre le popolazioni stanziali hanno un’alimentazione con alto contenuto di carboidrati (come riso e patate), la miscela di piante ed animali selvatici della dieta degli ultimi cacciatori-raccoglitori assicurano un più alto contenuto di proteine ed un migliore equilibrio di altri nutrimenti. In uno studio si evidenzia come l’assunzione giornaliera di cibo dei Boscimani (in un mese di abbondanza di cibo) fu di 2140 calorie e 93 grammi di proteine, considerevolmente più alta della dose quotidiana suggerita per persone di dimensioni analoghe.
E’ quasi incredibile che i Boscimani, che si nutrono di 75 piante selvatiche, possano morire di fame come successe alle centinaia di migliaia di agricoltori irlandesi e alle loro famiglie durante la carestia del 1840. E così le vite degli ultimi cacciatori-raccoglitori, almeno, non sono né pericolose nè brutali, nonostante le coltivazioni li abbiano spinti entro i peggiori territori al mondo. Nè le moderne società di cacciatori-raccoglitori che hanno condiviso le risorse con società dedite all’agricoltura ci raccontano molto sulle condizioni precedenti alla rivoluzione agricola.
Le tesi progressiviste si basano su assunti relativi ad un lontano passato: la vita dei popoli primitivi migliorò quando passarono all’agricoltura. Gli archeologi possono datare quel passaggio distinguendo i resti di piante e animali selvatici da quelli addomesticati presenti nelle discariche preistoriche. Come si può dedurre la salute da rifiuti preistorici e quindi provare direttamente gli assiomi progressivisti? La questione ha trovato risposta solo in tempi recenti, in parte grazie a nuove tecniche di paleopatologia che studia i segni di malattie nei resti di popolazioni antiche. In alcune situazioni fortunate il paleopatologo ha quasi la stessa quantità di materiale da analizzare di un moderno patologo. Alcuni archeologi trovarono nel deserto del Cile, per esempio, mummie in ottimo stato di conservazione le cui condizioni mediche alla data della morte potevano essere determinate tramite autopsia. E le feci di antichi Indiani che vivevano nelle caverne del Nevada erano sufficientemente integre da poter essere esaminate nella ricerca di parassiti intestinali.
Generalmente gli unici resti umani a disposizione degli studiosi sono gli scheletri, che permettono però una sorprendente serie di deduzioni. Tanto per cominciare uno scheletro rivela a quale sesso appartenesse l’individuo, il suo peso e l’età approssimata. Nei pochi casi in cui ci sono molti scheletri si può fare una tabella di mortalità esattamente come quelle usate dalle compagnie di assicurazione per calcolare l’aspettativa di vita ed i rischi di morte ad una determinata età. I paleopatologi possono anche calcolare i rapporti di crescita misurando le ossa delle persone a differenti età, esaminare i denti per osservare i problemi di smalto (segni di malnutrizione infantile) e riconoscere le cicatrici lasciate sulle ossa da malattie come anemia, tubercolosi, lebbra etc..
Un esempio diretto di cosa abbiano imparato i paleopatologi dagli scheletri riguarda i cambiamenti storici nell’altezza. Gli scheletri di Grecia e Turchia mostrano che l’altezza media dei cacciatori-raccoglitori verso la fine della glaciazione era di 1,80m per gli uomini e 1,70 per le donne.
Con l’adozione dell’agricoltura le altezze crollarono e nel 3000 AC si stabilizzarono in 1,60m per gli uomini e 1,50 per le donne. Nei tempi classici le altezze molto lentamente aumentarono, ma tanto Greci che Turchi moderni non hanno ancora riguadagnato le altezze medie dei loro distanti antenati.
Un altro esempio di paleopatologia al lavoro è lo studio degli scheletri Indiani presenti nei tumuli delle valli dell’Illinois e dell’Ohio. A Dickson Mounds, situato presso la confluenza dei fiumi Spoon e Illinois, gli archeologi hanno estratto circa 800 scheletri che rendono l’idea dei cambiamenti nella salute di quella popolazione quando decise di adottare la coltivazione intensiva di mais attorno al 1150 AC. Gli studi di Georges Armelagos e dei suoi colleghi dell’università del Massachusetts mostrano come questi primi agricoltori pagarono un alto prezzo per questo nuovo stile di vita.
Paragonati ai cacciatori-raccoglitori che li precedettero, gli agricoltori avevano circa il 50% di problemi in più allo smalto dentale (il che indicava malnutrizione), il quadruplo di anemia causata da deficienza di ferro (evidenziata da avanzata osteoporosi), il triplo di lesioni ossee che rivelavano malattie infettive in generale, ed un aumento delle condizioni degenerative della spina dorsale, probabilmente a causa del lavoro troppo duro.
“L’aspettativa di vita alla nascita nelle comunità pre-agricole era di circa 26 anni” afferma Armelagos ”mentre in quelle agricole era di 19 anni. Quindi questi episodi di difficoltà alimentari e malattie infettive stavano seriamente minacciando la loro capacità di sopravvivenza”. Le prove suggeriscono che gli Indiani di Dickson Mounds, come molte altre popolazioni primitive, si dedicarono all’agricoltura non per scelta ma per la necessità di nutrire un sempre maggiore numero di individui. “Non penso che i cacciatori-raccoglitori adottarono l’agricoltura se non quando furono costretti, e quando lo fecero scambiarono qualità con quantità” dice Mark Cohen della State University di New York, coeditore assieme ad Almelagos di uno dei più rilevanti libri del campo: “Paleopathology at the Origins of Agricolture”. “Quando iniziai ad affermare queste cose dieci anni fa, non molti mi davano ragione. Adesso invece è diventata una voce rispettabile, quantunque controversa, nel dibattito in corso.”
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