Fonte: comune-info.net
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Coordinato da Grove Harris, venerdì 16 ottobre di quest’anno, al Parliament of World’s Religions di Salt Lake City (Utah) c’è stato uno sfavillante incontro tra Vandana Shiva e Starhawk. Questa sessione del parlamento, fondato nel 1893 a Chicago da Swami Vivekananda, Charles Bonney e Susan B. Anthony con l’intento di portare a uno scambio permanente tra il pensiero religioso d’Oriente e d’Occidente e che ha continuato da allora a riunirsi in varie parti del mondo, aveva messo a tema quattro filoni di riflessione, su questioni molto attuali e realmente interreligiose: la dignità delle donne e i diritti umani, i conflitti interreligiosi, il cambiamento climatico e le culture delle comunità indigene.
È stata la prima volta che la spiritualità femminile ha avuto voce autonoma e il tavolo con Vandana Shiva e Starhawk ha intrecciato nel migliore dei modi possibili il pensiero delle donne con il pensiero della crisi ecologica.
Il titolo della discussione era “Comunità resilienti, pace giustizia cibo e acqua”. Vandana Shiva, potente reincarnazione di Durga che combatte contro i demoni, ha esordito con molta franchezza e determinazione sottolineando come ogni forma di “comunità” sia ciò che maggiormente viene ostacolato dai detentori degli attuali interessi economici e politici, a cui il mantenimento delle disastrose condizioni attuali è del tutto funzionale, non importa se alla fine resterà solo terra bruciata e miliardi di profughi ambientali. Distruggere le comunità esistenti e rendere difficile la formazione di nuove serve a ridurre le persone a singoli individui privi di terra, di tradizioni e di diritti e non è altro che la prima, vecchissima regola dei sistemi di dominanza. Perché le comunità sono ricche di relazioni e dalle relazioni tra persone nascono le soluzioni ai problemi, la forza, il coraggio e le energie che portano a risultati positivi.

Enumera quindi tre punti cruciali per comprendere dove ciascuno/a di noi si colloca e che ruolo siamo pronti/e a giocare: il primo, come ci relazioniamo alla terra? Attraverso il possesso o la cura? La terra dà i suoi doni nel ciclo della nascita, crescita e raccolto, ma sta a noi accoglierli nel modo giusto. Un modo giusto e indispensabile nel presente è difendere i semi come beni comuni che ci sono stati affidati dai nostri Antenati/e. Occorre anche chiederci se abbiamo finora saputo difenderli in maniera efficace. O se invece ci siamo fatti istupidire dai prodigi e dalle promesse delle tecnologie agroalimentari che assicuravano (e nel breve periodo garantivano) semi abbondanti come prima mai se ne erano visti.
Diventando dipendenti da una scienza che in realtà è profondamente stupida perché seguendo il successo a breve termine e l’illusione che ci saranno sempre nuove terre da usare e poi gettare, ha rovinato ovunque e continua a farlo il sottile strato fertile del suolo coltivabile, prodotto da millenni di sapiente accumulazione di scarti, rifiuti, materiali in decomposizione.
Come Barbara Mann della Toledo University ha mostrato in un’altra sessione del parlamento (“Colei che dà la vita, Colei che dà la forma”), le donne native americane, per esempio, sono state le creatrici della terra su cui camminiamo attraverso un paziente e sacro lavoro di “terraforming”. Gli studiosi europei solo da poco cominciano a capirlo, chiamando la terra composta dalle donne “Terra Scura”. Ma non si trattava soltanto di compost, bensì di una sapiente miscela che conteneva molte sostanze nutrienti, dall’azoto al fosforo. Le donne erano particolarmente attive nelle cosiddette terre “marginali”, come quelle delle argille rosse e compatte del Sudest Americano. Quando arrivarono, gli Europei trovarono una terra straordinariamente produttiva per uno spessore di una trentina di centimetri almeno. Dopo averlo sconsideratamente dissodato con i loro aratri a versoio, lo strato di terreno fertile è andato distrutto dallo sfruttamento intensivo con coltivazioni estremamente esigenti, come il cotone e il tabacco. Nell’arco di soli 60 anni, dal 1778 al 1840, gli Europei hanno sfruttato e consumato tutto lo strato fertile, lasciando solo il substrato di argilla rossa, senza capire che la Terra Scura era stata deliberatamente e accuratamente prodotta e conservata dalle donne indigene,alle quali apparteneva.
Le monoculture della mente, ripete Vandana Shiva da almeno vent’anni ovunque la invitino a parlare, producono le monoculture dell’agricoltura intensiva, deserti ordinati di filari di piante solitarie che per crescere hanno bisogno di concimi artificiali e di massiccia protezione dai parassiti, non contenuti da nessuna difesa da parte di altre piante che normalmente costituiscono la biodiversità naturale di un campo o di un bosco qualsiasi.

Secondo: reclamare la biodiversità, perché tutto è interconnesso. Una scienza che ignora questo è una scienza ignorante. L’oggettività scientifica, che tanto ha imbonito le menti dei cittadini della modernità, semplicemente non esiste, perché non esistono”oggetti” in natura e anche le piante sono creature senzienti. Queste verità stanno ri-emergendo rapidamente alla consapevolezza dei tanti e le uniche vere risorse economiche che la stessa scienza appena nominata sta fornendo sono il prozac come rimedio all’ansia crescente, la chirurgia plastica per “disfare quel se stessi” in cui non ci si trova più a proprio agio e la vendita della merce “informazioni allarmistiche”. E chiude il suo intervento ricordando come già nel 2007 avesse scritto Soil not Oil (terra non petrolio) e oggi, in cui tutti cominciano ad andare in panico, lancia un altro slogan: Stop Panic Become Organic.
Ed è a questo punto che prende la parola Starhawk, con molta tranquillità e apparentemente sottotono: non a caso la moderatrice la introduce come the most uncommon common woman.
“Ho da poco finito di scrivere il seguito a La Quinta Cosa Sacra (testo amatissimo da un’intera generazione di ecofemministe), racconta, si chiama City of Refuge e raccontacome fare la rivoluzione”. E prosegue dicendo come non sia possibile parlare di sacralità della terra senza parlare di rifiuti (dirt): questa è la strada per evitare i gadgets con cui la scienza e il sistema cercano di rispondere al panico. E passa a parlare delle molte connessioni tra suolo e donne, di come le nostre priorità siano adesso “la terra, la gente, il futuro”. E, approfondendo il tema della comunità, invita a fare attenzione alla corretta accezione della parola: non ha più senso parlare solo di comunità umana, la parola comunità deve comprendere gli umani, gli animali, le piante, i batteri, i suoli ecc. ecc.
I batteri, prosegue, sono una stupenda manifestazione della Madre, e una comunità è fatta da tutti quanti vivono su uno stesso luogo della terra; si realizza pienamente nel momento in cui questa consapevolezza arriva alla coscienza e quando prendiamo decisioni che tengono insieme tutti questi aspetti di una comunità. È tempo di ragionare per “ecosistemi massivi” che includono tutti i sistemi viventi.
Noi sappiamo come rigenerare i suoli e le acque, abbiamo accumulato enormi abilità e capacità, non è questo sapere che ci manca per rispondere al panico, manca la volontà politica di mettere in atto ciò che sappiamo e possiamo fare da subito. Quando ci alziamo in difesa dei beni comuni, stiamo facendo un gesto sacro, proteggiamo noi e la sacralità della terra.
Infine, rispondendo ad alcune domande dei presenti, attenti e affascinati, a una domanda su Navdania Vandana Shiva risponde che, lungi dall’essere una consociazione brevettata di semi di piante indiane, nove è il numero che indica il più alto livello di diversità e quindi ogni luogo, ogni clima ha la sua combinazione esemplare di nove semi. E che acqua e suolo sono la stessa cosa. Il furto della terra (land grabbing) è il furto dell’acqua e viceversa, uno non esiste senza l’altra. Come piccolo ma chiaro exemplum finale ricorda che vari luoghi del pianeta si stanno difendendo dal saccheggio delle multinazionali agroalimentari dichiarandosi “zone coca cola free” e scuole che si proclamano “coca cola free”.
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*Attiva nel movimento delle donne dagli anni Settanta, Luciana Percovich si è occupata di formazione presso la Libera Università delle Donne di Milano, ha diretto collane di saggistica (attualmente la collana Le Civette/Saggi per l’Editrice Venexia) e scritto su varie riviste occupandosi di medicina delle donne, scienza, antropologia, mitologia e spiritualità femminile (tra i suoi libri più importanti «Colei che dà la vita, Colei che dà la forma. Miti di creazione femminili, Venexia, 2009»).
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Volendo migliorare la patata comune irlandese, Luther Burbank si mise a coltivare e a studiare 23 piantine di patate provenienti dal genere Early Rose. Una piantina tra queste produsse 2-3 volte di più i tuberi e di una dimensione maggiore delle altre. La sua patata è stata introdotta in Irlanda per combattere l'epidemia di ruggine. La specie Burbank il ceppo coltivato e commercializzato dalla sua ditta (dal nome dell'inventore), venne adottata dalla gran parte dei coltivatori di patate negli Stati Uniti nel 1871. In seguito fu soprannominata la patata dell'Idaho.
Oltre alla famosa patata dell'Idaho, Luther Burbank si dedicò alla speriementazione nella coltivazione di: fiori come la margherita Shasta, pesche ( Burbank July Elberta Peach ) nettarine Gold Flaming che si diffusero in Virginia, prugne Santa Rosa e l'altrettanto famosa varietà Rutland, noci Royal, fragole Robusta, aglio gigante, e molte altre delizie .
“Il segreto per migliorare la riproduzione delle piante, a parte la conoscenza scientifica”, disse Luther Burbank, “è l’amore”. Soprannominato “il mago dell’orticoltura”, con la sua affermazione Burbank rivela la semplicità e l’umiltà con cui fece le scoperte più straordinarie. L. Burbank, un botanico americano nato nel 1849, spiegò che, semplicemente parlando alle piante, creava per esse uno spazio sicuro e pieno d’affetto. Usando questo metodo poco ortodosso, riuscì ad ‘incoraggiare’ un cactus del deserto a perdere le spine. Confortava la pianta dicendole: “Non hai nulla da temere. Non hai bisogno di queste spine per difenderti. Ti proteggerò io”.
Un cactus modificò la sua forma convinto da qualcuno a farlo.
«Erba Medica. Il mio studente e amico personale, il defunto Luther Burbank, famoso mago delle piante, diceva che l'erba medica contiene alcune delle più importanti sostanze nutritive conosciute, e che sarebbe diventata il futuro cibo dell'uomo. L'erba medica è chiamata anche alfalfa, che è un antico nome arabo che significa "padre di tutti i cibi". Sta scritto che centinaia d'anni prima di Cristo i Persiani invasero la Grecia servendosi di cavalli che avevano avuto per foraggio dell'erba medica. Appare chiaro che il suo alto valore curativo e nutritivo può essere spiegato dal fatto che ha le radici più lunghe di qualsiasi altra pianta conosciuta, raggiungendo a volte i quindici metri di lunghezza. Perciò si capisce facilmente come una radice che si faccia strada così profondamente nelle viscere della terra sia destinata ad assorbire delle potenti qualità magnetiche, e ad estrarre probabilmente dei minerali di una forza più concentrata e intensa di quelli più prossimi alla superficie terrestre. Questo fatto, unito al suo sistema di coltivazione simile a quello del fieno e al suo processo d'essiccazione in cumuli, che la saturano letteralmente di vitamina D (la vitamina della luce del
Yogananda