Veeresh, discepolo di Osho da molti anni e fondatore della famosa comunità terapeutica olandese Humaniversity, parla di come ha vissuto tre aspetti fondamentali della vita: libertà, autorità e responsabilità.
A SCUOLA DI MENZOGNE
Ho un ricordo di quando avevo circa otto anni: mi vedo uscire dal confessionale, dove il prete mi ha detto di dire dieci Ave Maria e dieci Padre Nostro per i peccati che ho commesso. Vado all’altare per inginocchiarmi, ma sono arrabbiato, perché non posso uscire a giocare e devo stare in chiesa. Decido allora di sfidare dio e la sua autorità; comincio a ripetere sottovoce: “Vaffanculo dio! Vaffanculo dio! Vaffanculo dio!” E poi sto lì ad aspettare che un fulmine colpisca la chiesa.
Questa fu la mia prima reazione all’autorità spirituale.
Recentemente ho avuto l’occasione di parlare con mia madre e lei mi ha ricordato che, più o meno a quell’età, le avevo chiesto: “Perché mi hai battezzato?” Lei mi sembrò un po’ confusa e poi disse che l’aveva fatto perché era cattolica, come tutta la nostra famiglia, e pensava che fosse un bene per me. Io non mi diedi per vinto e chiesi: “Com’è che non l’hai chiesto prima a me?” Mi disse che non ci aveva mai pensato.
Ogni volta che i miei genitori mi chiedevano cosa stavo facendo, non dicevo mai la verità – che rubavo, che andavo in giro con una banda di teppisti. Dicevo solo che ero stato fuori con gli amici e la conversazione non andava mai oltre. Quando qualche insegnante mi chiedeva delle cose, mentivo; era una procedura standard. La mia posizione era: non dire mai la verità. L’avevo imparato a casa con i miei genitori, a scuola e nel vicinato. C’era un codice, non espresso a parole, e io lo feci mio: mai parlare con qualcuno; mai dire la verità; mai mettere nei guai qualcuno.
Questo era il mio sistema di valori all’età di 14 anni, quando cominciai a drogarmi.
A LEZIONE DI SCACCHI
A QUINDICI ANNI, dopo un’overdose di eroina, venni ricoverato in un ospedale di New York per la riabilitazione di minorenni drogati. Ero assistito da un’équipe che includeva un assistente sociale, uno psichiatra, un medico, uno psicologo e un terapista occupazionale. Quando andavo in giro per l’ospedale e incontravo un membro dell’équipe, avevo un modo specifico per relazionarmi a ognuno di loro. Se era il medico, gli dicevo come stavo fisicamente. Quando incontravo l’infermiera ero gentilissimo, così ottenevo le mie medicine prima degli altri. Allo psicoanalista raccontavo intensi sogni sessuali sui miei genitori, che lui beveva tranquillamente. All’assistente sociale raccontavo tutti i miei guai: i conflitti con i vicini, la mancanza di affetto…
Avevo una storia da propinare a ognuno di loro e loro le gradivano molto. E ci credevano. Questo è quello che imparai all’ospedale: come manipolare le autorità e dire loro esattamente quello che volevano sentire. Loro trascrivevano tutto, aggiungendo le loro grandi intuizioni. Scoprii che, dando unpacchetto di sigarette a un paziente che si era fatto un duplicato delle chiavi per le cartelle cliniche, potevo avere accesso alla mia scheda e leggere i progressi che stavo facendo. Così potevo programmare le mie mosse successive. Era una grande partita a scacchi.
Eccomi qua, a 15 anni a fare una cosa del genere! Non avevo alcun senso di responsabilità; volevo solo recitare la parte che tutti volevano che iorecitassi. Ma dentro di me, volevo rifugiarmi nella droga. A quel tempo autorità era sinonimo di galera, la droga rappresentava la libertà, e la responsabilità era solo un concetto.
I miei genitori pensarono che l’unico modo per togliermi dal quartiere infestato dalla droga fosse mandarmi all’accademia militare. L’ospedale fu d’accordo. Dopo otto mesi di ospedale, entrai in un mondo completamente nuovo. Dovevo salutare chiunque avesse un grado. A volte voleva dire salutare gente più giovane di me. Se non lo facevo correttamente, venivo mandato a marciare sul piazzale col fucile, per un’ora o due. Preferivo divertirmi, così manipolai il sistema, facendo esattamente quello che volevano che facessi. Di nuovo l’autorità doveva essere manipolata – e tutto per poter riprendere la droga, durante le vacanza a casa. Questo è il ricordo della mia vita a sedici anni, all’accademia militare.
Più tardi, ricordo di essere stato in carcere a Lexington, nel Kentucky.
Poiché non volevo essere violentato, pagai in sigarette un tipo perché mi insegnasse karatè. Immaginavo che conoscere il karatè fosse la mossa vincente. Quando gli chiesi di partecipare alle sue lezioni, mi disse di mettermi in piedi al centro della stanza e poi disse: “Mostrami quello che hai!” C’erano dieci persone nella stanza, tutti indossavano due maglie, stivali e pantaloni imbottiti. Stavo cercando di indovinare perché, quando si misero a prendermi a calci e a pugni. “Che cazzo sta succedendo qua?”, mi chiesi, ma, poiché ricevevo tanti colpi, mi girai e mi misi a combattere, facendo tutto quello che potevo per colpire ognuno di loro, almeno una volta. Quando l’insegnante vide che accettavo il combattimento, si sentì soddisfatto e fui accettato nella classe.
Un tipo mi disse che, in quella situazione, c’era chi si buttava per terra e si raggomitolava su se stesso. Quelli non venivano accettati. Ma io ce la feci. Avevo bisogno dell’immagine di combattente per potermi sentire sicuro in galera, perché avevo, e sono ancora così, la stessa taglia di quando avevo 14 anni. Andavo in giro con dei tipi grossi, i più duri, intrattenendoli e parlando un sacco. In quel tipo di comunità la mia strategia di sopravvivenza era di parlare con la gente e farla divertire. Questa era la vita di comunità in prigione.
IN COMUNITÀ: UNA PROSPETTIVA DIVERSA
IL PRIMO GROSSO CAMBIAMENTO avvenne negli anni settanta – avevo allora 28 anni – quando andai alla Phoenix House, dove tenevano un programma sperimentale per la riabilitazione di drogati, progettato e diretto da ex-tossicodipendenti. Lì venni costretto a confrontarmi con me stesso. In tutta la mia storia di 14 anni di dipendenza dalla droga, non ero mai stato posto davanti a me stesso, come lo fui allora. Ora non c’erano medici a cui mentire. Invece mi trovavo faccia a faccia con ex-tossicodipendenti che sapevano esattamente cosa mi succedeva. Incontrai un altro tipo di autorità. E questo mi dette uno scossone.
Da questa esperienza si modificò tutto il mio sistema di valori, riguardo alla responsabilità, all’autorità e alla libertà. Quegli ex-drogati si facevano avanti personalmente nei gruppi, mostrandomi quanto fossi pieno di merda. Non si bevevano nessuna delle mie scuse. Alla fine riuscii a capire quelloche dicevano, il che mi portò finalmente ad ammettere che l’unica ragione per cui prendessi la droga era perché mi piaceva e che non me ne fregava niente di nessuno. Finché non ottennero questa ammissione da me, qualsiasi altra cosa dicessi, tutte le scuse sui motivi per cui mi drogavo, erano cazzate.
Per la prima volta nella mia vita, provai rispetto per qualcuno – perché mi diceva la verità. Vidi che la ragione per cui mi dicevano di smettere di comportarmi negativamente era che veramente ci tenevano a me, non perché volevano che una statistica dimostrasse che il loro sistema era giusto. Vidi quegli ex-tossici piangere per me e mi sentii toccato, come non lo ero mai stato in vita mia.
All’improvviso le mie idee sull’autorità cambiarono. L’autorità aveva sempre voluto dire persone al potere che volevano ottenere qualcosa da te (come quelli in prigione o all’accademia militare), ma questa gente era al potere e si preoccupava per me. Era qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. Sopportarono i miei stupidi comportamenti per anni, finché, alla fine, riuscii a capire quello che mi stavano dicendo: dovevo prendermi la responsabilità di me stesso e smettere di usare la mia storia e tutto quello che avevo imparato come una scusa. Mi mostrarono il significato della responsabilità. Non potevo più trovare pretesti per scansarla.
Mi mostrarono anche come apprezzare l’autorità, mettendomi in tale posizione. Era allucinante. Mi ero lamentato tutta la vita dell’autorità, e improvvisamente mi trovavo io stesso ad avere autorità; prima come facilitatore, poi coordinatore, poi organizzatore e, alla fine, vicedirettore. E potevo vedere le persone reagire alla mia autorità, proprio come avevo fatto io. Ora potevo comprenderlo da una prospettiva diversa.
Mi trasferii a Londra dove avviai una mia comunità di riabilitazione e per i primi due anni applicai quello che avevo imparato alla Phoenix House. Usai la mia autorità per controllare le persone e farle andare al gradino successivo, e cominciare davvero la riabilitazione. Ma il mio progetto londinese finì in un conflitto. Il governo voleva una comunità terapeutica il cui scopo fosse riadattare i tossicodipendenti alle strutture sociali. Io non volevo riadattarli, volevo che cambiassero la società; la mia posizione era simile a quella delle Black Panthers: la società è fottuta e io voglio che la mia gente vada là fuori e la cambi. Questo non andava affatto bene alle autorità britanniche. Una tale posizione fu un grosso shock per loro.
IL POTERE DELL'AMORE
Guardando indietro adesso, posso vedere quanto fossi immaturo a quel tempo. In realtà non avevo nessuna voglia di negoziare. Il mio atteggiamento era: “Se non posso fare a modo mio, me ne vado”. Dopo due anni in quel progetto stavo ancora reagendo all’autorità. Fu allora che incontrai Osho.
Prima di incontrarlo di persona, lo vedevo come un essere spirituale fluttuante su una nuvola. Quello che mi colpì, quando lo incontrai di persona, fu che era un bellissimo essere umano, pieno di amore, con un acutissimo senso dell’umorismo. Mi innamorai di lui. Fu incredibile.
Avevo un sacco di aspettative… tipo che quando uno è illuminato, un Maestro, dovrebbe essere capace di guardare in chiunque e capire cosa stia pensando e sentendo. Che sapesse esattamente quello che era giusto per quella persona e gli dicesse come trovare il sentiero della luce e dell’illuminazione. All’inizio, proiettai questa mia fantasia su Osho: lui è un guru, lui sa tutto. Credevo che lui dovesse avere questa visione magica – la capacità di sintonizzarsi su di te e roba del genere. Poi, con gli anni, lentamente cominciai a vedere che le mie aspettative non erano realistiche. Logicamente lui non poteva sapere i fatti della gente, bisognava raccontarglieli, perché li conoscesse. Così, dopo un po’, lasciai perdere tutte quelle storie.
Quello che ho appreso con Osho, rispetto all’autorità, è stupefacente. Innanzitutto, a parte la barba, assomigliava esattamente al patrigno alcolista col quale ero cresciuto. Fui veramente shoccato, incontrando Osho, nel vedere di nuovo l’immagine del mio patrigno – ma questa volta come un essere umano pieno di amore, non uno prigioniero dell’alcol e della violenza.
All’inizio la mia relazione con Osho fu molto simile a quella col mio patrigno. Volevo compiacerlo e fare tutto bene e assicurarmi che lui fosse felice. Osho continuò a mostrarmi che gli piacevo, ma io non riuscivo a crederci. Pensavo di essere solo un certo tipo di intrattenimento per lui. Mi accorgevo di piacergli, ma credevo che fosse per qualche motivo nascosto. Per esempio, dopo che per anni non ero stato nel suo ashram, arrivavo e mi veniva dato un posto in prima fila. Mi rendevo conto della rabbia di qualcuno dei suoi discepoli, che erano stati lì per anni: “Veeresh si ferma solo una settimana, perché sta andando a Goa e gli viene dato il posto in prima fila”.
In principio credetti che mi stesse usando come uno strumento terapeutico per colpire qualcun altro. Guardando indietro negli anni, so che non era vero. Credo di capire che io fossi un divertimento per lui, così come lui lo era per me. Imparai ad apprezzare questa cosa e, con gli anni, mi resi conto di quale speciale amicizia ci fosse fra noi. Copriva l’intero spettro – all’inizio mi sentivo un bambino in rapporto a lui, poi mi sentii finalmente un adulto, e, alla fine, addirittura un padre protettivo, preoccupato che lui stesse bene e che la sua salute fosse a posto.
Quello che lui mi mostrò, fu un’incredibile capacità di amare. Lo vidi con così tanta gente, e il suo amore era sempre lo stesso. Vidi questa cosa tantissime volte. Non ti amava per quello che facevi. Ti amava per quello che eri. Ne ricavai una grande ispirazione.
Nella comunità terapeutica di Phoenix House, io dovevo lavorare per avere amore. Dovevo fare tutto giusto e solo allora ottenevo l’approvazione.
Osho mi amò fin dall’inizio. Fu una profonda intuizione.
È così che ora lavoro con la gente: ho quella pazienza e accettazione.
Osho mi ha anche fatto vedere che non si arrendeva mai, con nessuno. In un darshan un discepolo disse: “Osho, voglio restare qui per sempre!” E lui disse: “Benissimo! Vuoi restare qui per sempre. La prossima volta vieni per un periodo più lungo.” Aveva una grande compassione, sapendo che comunque erano tutte cazzate. Solo giochi per compiacere il maestro.
Osho mi ha mostrato che la libertà e la responsabilità vanno insieme. In altri termini, la libertà, senza la responsabilità, non funziona. Non puoi fregartene e abusare degli altri; devi considerarli e averne cura. Un bambino può fare a meno di preoccuparsi delle conseguenze, ma quando sei adulto non funziona più. Osho mi fece vedere che più libertà ho, più ho responsabilità. Quando faccio qualcosa veramente bene, e mi occupo delle mie responsabilità, allora ho più libertà essere me stesso, spontaneo, e godermi così il fatto di essere vivo.
Anche se mi sentirò sempre ansioso quando passo la dogana – nonostante ora non abbia più nulla a che fare con la droga – non ho più conflitti con l’autorità. In qualche punto lontano, ancora sento: “Ecco che arrivano i rompipalle!” Anni fa, quando ero tossicodipendente, giocavo a guardie e ladri con la polizia. Quando vedo un poliziotto, provo ancora quella vecchia sensazione – finché non ci parlo. Ma non sono più reattivo, rispetto all’autorità.
Credo che il mio atteggiamento amorevole e responsabile sia il mio modo personale di essere in una posizione di autorità. Cerco di dare spazio alle persone. Credo che questo voglia dire essere responsabili. Incoraggio il loro modo di essere. Cerco di scoprire che cosa fa felice la gente e cerco di aiutarla a raggiungerlo. La mia visione è che tutti i miei amici siano felici. Questo è il tipo di comune che dirigo adesso. Amo le persone per quello che sono, e amo il loro potenziale, quello che diventeranno. E desidero vederlo svilupparsi.
Mi guardo allo specchio, quando mi faccio la barba, e mi dico: “Veeresh, sei un essere umano meraviglioso (senza gonfiarmi troppo). Guarda cosa hai fatto nelle tua vita! Sei incredibile. Hai sessant’anni e il tuo corpo è come quando ne avevi quattordici (be’, forse un po’ più vecchio). Hai uno spirito, un entusiasmo e un’energia che si riflettono nelle persone intorno a te”. Quello che sono è il risultato di quello di cui ho parlato finora.
Sono riconoscente a Osho per le ali che mi ha dato – ora posso dire a me stesso: “Ehi, vai proprio bene così come sei!”.
tratto da Viha Connection
L’altro giorno ho detto qualcosa su Veeresh, uno dei miei terapisti più sinceri, onesti e autentici. E ora, arrivando, l’ho visto di nuovo. Piangeva come un bambino. Lacrime di pura gioia. Queste lacrime le ho create io. Non finiranno nei libri di storia, ma trasformeranno molti di quelli che entreranno in contatto con lui. Con le sue lacrime ha creato un ponte tra il mio e il suo cuore, tra il mio e il suo essere. È una di quelle persone silenziose, che continuano a lavorare senza vantarsi di nulla.
OSHO
Vi è stato un momento che mi sono sentito sul quel ponte ,ho avvertito il flusso di energia che lo attraversava e il mio cuore è stato attraversato dall' amore di due cuori . E' Osho che mi ha portato a Veeresh ma è Veeresh che ha aperto il mio cuore a Osho .
RispondiElimina