Nella storia dell’industria della menzogna quale parte integrante
dell’apparato industriale-militare dell’imperialismo il 1989 è un anno
di svolta. Nicolae Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come
rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra
la popolazione romena le informazioni e le immagini del «genocidio»
consumato a Timisoara dalla polizia per l’appunto di Ceausescu.
I cadaveri mutilati
Cos’era avvenuto in realtà? Avvalendosi dell’analisi di Debord
relativa alla «società dello spettacolo», un illustre filosofo italiano
(Giorgio Agamben) ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui
qui si tratta:
«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena
sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati
dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il
genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il
mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi,
era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti
evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale
dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento
del movimento necessario del falso. Così verità e falsità diventavano
indiscernibili e lo spettacolo si legittimava unicamente mediante lo
spettacolo.
Timisoara è, in questo senso, l’Auschwitz della società dello
spettacolo: e come è stato detto che, dopo Auschwitz, è impossibile
scrivere e pensare come prima, così, dopo Timisoara, non sarà più
possibile guardare uno schermo televisivo nello stesso modo» (Agamben
1996, p. 67).
Il 1989 è l’anno in cui il passaggio dalla società dello spettacolo
allo spettacolo come tecnica di guerra si manifestava su scala
planetaria. Alcune settimane prima del colpo di Stato ovvero della
«rivoluzione da Cinecittà» in Romania (Fejtö 1994, p. 263), il 17
novembre 1989 la «rivoluzione di velluto» trionfava a Praga agitando una
parola d’ordine gandhiana: «Amore e Verità». In realtà, un ruolo
decisivo svolgeva la diffusione della notizia falsa secondo cui uno
studente era stato «brutalmente ucciso» dalla polizia. A vent’anni di
distanza lo rivela, compiaciuto, «un giornalista e leader della
dissidenza, Jan Urban», protagonista della manipolazione: la sua
«menzogna» aveva avuto il merito di suscitare l’indignazione di massa e
il crollo di un regime già pericolante (Bilefsky 2009). Qualcosa di
simile avviene in Cina: l’8 aprile 1989 Hu Yaobang, segretario del PCC
sino al gennaio di due anni prima, viene colto da infarto nel corso di
una riunione dell’Ufficio Politico e muore una settimana dopo. Dalla
folla di piazza Tienanmen il suo decesso viene collegato al duro
conflitto politico emerso anche nel corso di quella riunione (Domenach,
Richer 1995, p. 550); in qualche modo egli diviene la vittima del
sistema che si tratta di rovesciare. In tutti e tre i casi, l’invenzione
e la denuncia di un crimine sono chiamate a suscitare l’ondata di
indignazione di cui il movimento di rivolta ha bisogno. Se consegue il
pieno successo in Cecoslovacchia e Romania (dove il regime socialista
aveva fatto seguito all’avanzata dell’Armata Rossa), questa strategia
fallisce nella Repubblica popolare cinese scaturita da una grande
rivoluzione nazionale e sociale. Ed ecco che tale fallimento diviene il
punto di partenza di una nuova e più massiccia guerra mediatica, che è
scatenata da una superpotenza la quale non tollera rivali o potenziali
rivali e che è tuttora in pieno svolgimento. Resta fermo che a definire
la svolta storica è in primo luogo Timisoara, «l’Auschwitz della società
dello spettacolo».
«Reclamizzare i neonati» e il cormorano
Due anni dopo, nel 1991, interveniva la prima guerra del Golfo. Un
coraggioso giornalista statunitense ha chiarito in che modo si è
verificata «la vittoria del Pentagono sui media» ovvero la «colossale
disfatta dei media a opera del governo degli Stati Uniti» (Macarthur
1992, pp. 208 e 22).
Nel 1991 la situazione non era facile per il Pentagono (e per la
Casa Bianca). Si trattava di convincere della necessità della guerra un
popolo su cui pesava ancora il ricordo del Vietnam. E allora?
Accorgimenti vari riducono drasticamente la possibilità per i
giornalisti di parlare direttamente coi soldati o di riferire
direttamente dal fronte. Nella misura del possibile tutto dev’essere
filtrato: il puzzo della morte e soprattutto il sangue, le sofferenze e
le lacrime della popolazione civile non devono fare irruzione nelle case
dei cittadini degli USA (e degli abitanti del mondo intero) come ai
tempi della guerra del Vietnam. Ma il problema centrale e di più
difficile soluzione è un altro: in che modo demonizzare l’Irak di Saddam
Hussein, che ancora qualche anno prima si era reso benemerito, agli
occhi degli USA, aggredendo l’Iran scaturito dalla rivoluzione islamica e
antiamericana del 1979 e incline a far proseliti nel Medio Oriente. La
demonizzazione sarebbe risultata tanto più efficace se al tempo stesso
si fosse resa angelica la vittima. Operazione tutt’altro che agevole, e
non solo per il fatto che dura o impietosa era in Kuwait la repressione
di ogni forma di opposizione. C’era qualcosa di peggio. A svolgere i
lavori più umili erano gli emigrati, sottoposti a una «schiavitù di
fatto», e a una schiavitù di fatto che assumeva spesso forme sadiche:
non suscitavano particolare emozione i casi di «serbi scaraventati giù
dal terrazzo, bruciati o accecati o picchiati a morte» (Macarthur 1992,
pp. 44-45).
E, tuttavia… Generosamente o favolosamente ricompensata, un’agenzia
pubblicitaria trovava un rimedio a tutto. Essa denunciava il fatto che i
soldati irakeni tagliavano le «orecchie» ai kuwaitiani che resistevano.
Ma il colpo di teatro di questa campagna era un altro: gli invasori
avevano fatto irruzione in un ospedale «rimuovendo 312 neonati dalle
loro incubatrici e lasciandoli morire sul freddo pavimento dell’ospedale
di Kuwait City» (Macarthur 1992, p. 54). Sbandierata ripetutamente dal
presidente Bush sr., ribadita dal Congresso, avallata dalla stampa più
autorevole e persino da Amnesty International, questa notizia così
orripilante ma anche così circonstanziata da indicare con assoluta
precisione il numero dei morti, non poteva non provocare una travolgente
ondata di indignazione: Saddam era il nuovo Hitler, la guerra contro di
lui era non solo necessaria ma anche urgente e coloro che a essa si
opponevano o recalcitravano erano da considerare quali complici più o
meno consapevoli del nuovo Hitler! La notizia era ovviamente
un’invenzione sapientemente prodotta e diffusa, ma proprio per questo
l’agenzia pubblicitaria aveva ben meritato il suo denaro.
La ricostruzione di questa vicenda è contenuta in un capitolo del
libro qui citato dal titolo calzante: «Reclamizzare i neonati» (Selling
Babies). Per la verità, a essere «reclamizzati» non furono soltanto i
neonati. Proprio agli inizi delle operazioni belliche veniva diffusa in
tutto il mondo l’immagine di un cormorano che affogava nel petrolio
sgorgante dai pozzi fatti saltare dall’Irak. Verità o manipolazione? A
provocare la catastrofe ecologica era stato Saddam? E ci sono realmente
cormorani in quella regione del globo e in quella stagione dell’anno?
L’ondata dell’indignazione, autentica e sapientemente manipolata,
travolgeva le ultime resistenze razionali.
La produzione del falso, il terrorismo dell’indignazione e lo scatenamento della guerra
Facciamo un ulteriore salto in avanti di alcuni anni e giungiamo
così alla dissoluzione o piuttosto, allo smembramento della Jugoslavia.
Contro la Serbia, che storicamente era stata la protagonista del
processo di unificazione di questo paese multietnico, nei mesi che
precedono i bombardamenti veri e propri si scatenano una dopo l’altra
ondate di bombardamenti multimediali. Nell’agosto del 1998, un
giornalista americano e uno tedesco
«riferiscono dell’esistenza di fosse comuni con 500 cadaveri di
albanesi tra cui 430 bambini nei pressi di Orahovac, dove si è duramente
combattuto. La notizia è ripresa da altri giornali occidentali con
grande rilievo. Ma è tutto falso, come dimostra una missione
d’osservazione della Ue» (Morozzo Della Rocca 1999, p. 17).
Non per questo fa fabbrica del falso entrava in crisi. Agli inizi
del 1999 i media occidentali cominciavano a tempestare l’opinione
pubblica internazionale con le foto di cadaveri ammassati al fondo di un
dirupo e talvolta decapitati e mutilati; le didascalie e gli articoli
che accompagnavano tali immagini proclamavano che si trattava di civili
albanesi inermi massacrati dai serbi. Sennonché:
«Il massacro di Racak è raccapricciante, con mutilazioni e teste
mozzate. E’ una scena ideale per suscitare lo sdegno dell’opinione
pubblica internazionale. Qualcosa appare strano nelle modalità
dell’eccidio. I serbi abitualmente uccidono senza procedere a
mutilazioni [...] Come la guerra di Bosnia insegna, le denunce di
efferatezze sui corpi, segni di torture, decapitazioni, sono una diffusa
arma di propaganda [...] Forse non i serbi ma i guerriglieri albanesi
hanno mutilato i corpi» (Morozzo Della Rocca 1999, p. 249).
O, forse, i cadaveri delle vittime di uno degli innumerevoli
scontri tra gruppi armati erano stati sottoposti a un successivo
trattamento, in modo da far credere a un’esecuzione a freddo e a uno
scatenamento di furia bestiale, di cui era immediatamente accusato il
paese che la NATO si apprestava a bombardare (Saillot 2010, pp. 11-18).
La messa in scena di Racak era solo l’apice di una campagna di
disinformazione ostinata e spietata. Qualche anno prima, il
bombardamento del mercato di Sarajevo aveva consentito alla NATO di
ergersi a suprema istanza morale, che non poteva permettersi di lasciare
impunite le «atrocità» serbe. Ai giorni nostri si può leggere persino
sul «Corriere della Sera» che «fu una bomba di assai dubbia paternità a
fare strage nel mercato di Sarajevo facendo scattare l’intervento NATO»
(Venturini 2013). Con questo precedente alle spalle, Racak ci appare
oggi come una sorta di riedizione di Timisoara, una riedizione
prolungatasi per alcuni anni. E, tuttavia, anche in questo caso il
successo non mancava. L’illustre filosofo che nel 1990 aveva denunciato
«l’Auschwitz della società dello spettacolo» verificatasi a Timisoara
cinque anni dopo si accodava al coro dominante, tuonando in modo
manicheo contro «il repentino slittamento delle classi dirigenti ex
comuniste nel razzismo più estremo (come in Serbia, col programma di
“pulizia etnica”)» (Agamben 1995, pp. 134-35). Dopo aver acutamente
analizzato la tragica indiscernibilità di «verità e falsità» nell’ambito
della società dello spettacolo, egli finiva col confermarla
involontariamente, accogliendo in modo sbrigativo la versione (ovvero la
propaganda di guerra) diffusa dal «sistema mondiale dei media», da lui
precedentemente additato come fonte principale della manipolazione; dopo
aver denunciato la riduzione del «vero» a «momento del movimento
necessario del falso», operata dalla società dello spettacolo, egli si
limitava a conferire una parvenza di profondità filosofica a questo
«vero» ridotto per l’appunto a «momento del movimento necessario del
falso».
Per un altro verso, un elemento della guerra contro la Jugoslavia,
più che a Timisoara, ci riconduce alla prima guerra del Golfo. È il
ruolo svolto dalle public relations:
«Milosevic è un uomo schivo, non ama la pubblicità, non ama
mostrarsi o tenere discorsi in pubblico. Sembra che alle prime
avvisaglie di disgregazione della Jugoslavia, la Ruder&Finn,
compagnia di pubbliche relazioni che stava lavorando per il Kuwait nel
1991, gli si presentasse offrendo i suoi servizi. Fu congedata.
Ruder&Finn venne assunta invece immediatamente dalla Croazia, dai
musulmani di Bosnia e dagli albanesi del Kosovo per 17 milioni di
dollari all’anno, per proteggere e incentivare l’immagine dei tre
gruppi. E fece un ottimo lavoro!
James Harf, direttore di Ruder&Finn Global Public Affairs, in
un’intervista [...] affermava: “Abbiamo potuto far coincidere
nell’opinione pubblica serbi e nazisti [...] Noi siamo dei
professionisti. abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non siamo
pagati per fare la morale”» (Toschi Marazzani Visconti 1999, p. 31).
Veniamo ora alla seconda guerra del Golfo: nei primi giorni del
febbraio 2003 il segretario di Stato USA, Colin Powell, mostrava alla
platea del Consiglio di Sicurezza dell’ONU le immagini dei laboratori
mobili per la produzione di armi chimiche e biologiche, di cui l’Irak
sarebbe stato in possesso. Qualche tempo dopo il primo ministro inglese,
Tony Blair, rincarava la dose: non solo Saddam aveva quelle armi, ma
aveva già elaborato piani per usarle ed era in grado di attivarle «in 45
minuti». E di nuovo lo spettacolo, più ancora che preludio alla guerra,
costituiva il primo atto di guerra, mettendo in guardia contro un
nemico di cui il genere umano doveva assolutamente sbarazzarsi.
Ma l’arsenale delle armi della menzogna messe in atto o ponte per
l’uso andava ben oltre. Al fine di «screditare il leader iracheno agli
occhi del suo stesso popolo» la Cia si proponeva di «diffondere a Bagdad
un filmato in cui veniva rivelato che Saddam era gay. Il video avrebbe
dovuto mostrare il dittatore iracheno mentre faceva sesso con un
ragazzo. “Doveva sembrare ripreso da una telecamera nascosta, come se si
trattasse di una registrazione clandestina». A essere studiata era
anche «l’ipotesi di interrompere le trasmissioni della televisione
irachena con una finta edizione straordinaria del telegiornale
contenente l’annuncio che Saddam aveva dato le dimissioni e che tutto il
potere era stato preso dal suo temuto e odiato figlio Uday»
(Franceschini 2010).
Se il Male dev’essere mostrato e bollato in tutto il suo orrore, il
Bene deve risultare in tutto il suo fulgore. Nel dicembre 1992, i
marines statunitensi sbarcavano sulla spiaggia di Mogadiscio. Per
l’esattezza vi sbarcavano due volte, e la ripetizione dell’operazione
non era dovuta a impreviste difficoltà militari o logistiche. Occorreva
dimostrare al mondo che, prima ancora di essere un corpo militare di
élite, i marines erano un’organizzazione benefica e caritatevole che
riportava la speranza e il sorriso al popolo somalo devastato dalla
miseria e dalla fame. La ripetizione dello sbarco-spettacolo doveva
emendarlo dei suoi dettagli errati o difettosi. Un giornalista e
testimone spiegava:
«Tutto quello che sta accadendo in Somalia e che avverrà nelle
prossime settimane è uno show militar-diplomatico […] Una nuova epoca
nella storia della politica e della guerra è cominciata davvero, nella
bizzarra notte di Mogadiscio […] L’ “Operazione Speranza” è stata la
prima operazione militare non soltanto ripresa in diretta dalle
telecamere, ma pensata, costruita e organizzata come uno show
televisivo» (Zucconi 1992).
Mogadiscio era il pendant di Timisoara. A pochi anni di distanza
dalla rappresentazione del Male (il comunismo che finalmente crollava)
faceva seguito la rappresentazione del Bene (l’Impero americano che
emergeva dal trionfo conseguito nella guerra fredda). Sono ormai chiari
gli elementi costitutivi della guerra-spettacolo e del suo successo.
RIFERIMENTI
Giorgio Agamben 1995
Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino
Giorgio Agamben 1996
Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino
Dan Bilefsky 2009
A rumor that set off the Velvet Revolution, in «International Herald Tribune» del 18 novembre, pp. 1 e 4
Jean-Luc Domenach, Philippe Richer 1995
La Chine, Seuil, Paris
François Fejtö 1994 (in collaborazione con Ewa Kulesza-Mietkowski)
La fin des démocraties populaires (1992), tr. it., di Marisa Aboaf,
La fine delle democrazie popolari. L’Europa orientale dopo la
rivoluzione del 1989, Mondadori, Milano
Enrico Franceschini 2010
La Cia girò un video gay per far cadere Saddam, «la Repubblica», 28 maggio, p. 23
John R. Macarthur 1992
Second Front. Censorship and Propaganda in the Gulf War, Hill and Wang, New York
Roberto Morozzo Della Rocca 1999
La via verso la guerra, in Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes. Rivista Italiana di Geopolitica», pp. 11-26
Fréderic Saillot 2010
Racak. De l’utilité des massacres, tome II, L’Hermattan, Paris
Jean Toschi Marazzani Visconti 1999
Milosevic visto da vicino, Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes. Rivista Italiana di Geopolitica», pp. 27- 34
Franco Venturini 2013
Le vittime e il potere atroce delle immagini, in «Corriere della Sera» del 22 agosto, pp. 1 e 11
Vittorio Zucconi 1992
Quello sbarco da farsa sotto i riflettori TV, in «la Repubblica» del 10 dicembre
FONTE
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