sabato 5 dicembre 2015

«IN VENEZUELA SIAMO SOTTO ASSEDIO, ECONOMICO E MEDIATICO»

Intervista all’ex ministro della salute Rodriguez. «Vogliono minare il sostegno popolare»
«Il Venezuela è sotto assedio, è in atto una guerra di bassa intensità per minare il morale della popolazione e aizzarla contro quello che viene descritto come un governo allo sbando».
Così dice al manifesto Erick Rodriguez. Medico, ex ministro della salute, analista dei media e volto noto della tv, nel 2006 Rodriguez ha fatto parte della Commissione antimonopolio dell’Assemblea nazionale.
Prezzi impazziti, scarsità di prodotti, code chilometriche, inchieste per narcotraffico aperte dalla Dea. Che succede?
Ogni processo rivoluzionario che intenda mantenersi nel tempo deve mettere in conto attacchi costanti a diversi livelli, più raffinati ancora di quelli organizzati contro il comunismo del Novecento. Il primo obiettivo è squalificare il socialismo, associando alla parola autoritarismo, corruzione e inefficienza per attaccarlo con interventi esterni: utilizzando gli elementi di debolezza per nascondere la prospettiva emancipatrice che contiene. Anche nel Cile di Allende, gli strateghi di Washington hanno deciso di «far urlare l’economia» con modalità analoghe. È in atto una guerra di quarta generazione che coniuga diverse strategie, usando i media e le reti sociali come apripista per costruire attacchi militari. Le grandi agenzie internazionali d’intelligence militari, studiano i contesti storici, la costruzione dell’identità nazionale, la psicologia sociale. Pervertendo l’economia e introducendo il paramilitarismo nella criminalità organizzata, agiscono sul cervello primitivo dell’individuo, sulla parte emozionale, per risvegliare pregiudizi e paure. Un elemento chiave è quello dei rumors, la circolazioni di false notizie e sondaggi internazionali, per demolire la credibilità dei leader, generare dubbi e far perdere l’orientamento.
Ma perché non si trova il caffè se è prodotto in una impresa nazionalizzata?
L’oligarchia parassitaria, industriale e commerciale, che ha gestito la rendita petrolifera nella IV Repubblica, lo ha fatto per conto terzi e per intascare gli utili, rendendo il paese dipendente dalle importazioni e dalla tecnologia esterna. A tutt’oggi, noi non controlliamo la struttura economica, la controllano loro attraverso le grandi corporazioni che hanno creato: Fedecamara, Conindustria…
Considera che noi non abbiamo espropriato, ma soprattutto nazionalizzato e compensato. Alcune compagnie venezuelane hanno terminali interni, ma rispondono a transnazionali: come la Polar, che gestisce non solo la birra, ma oltre cento prodotti di consumo giornalieri. Le corporazioni impongono i costi di mercato, impediscono l’accesso a chi non è gradito. Controllano la catena di commercializzazione degli alimenti e la pervertono per imporre la liberalizzazione dei prezzi, un’inflazione galoppante li fa salire tutti i giorni senza apparente logica. Provocano la corsa all’accaparramento, la coazione al consumo, insicurezza nella popolazione. Manca il latte, ma si trovano i derivati non calmierati che costano a seconda del posto in barba alla legge del prezzo giusto. Manca lo zucchero, ma biscotti, dolci e bibite zuccherate si vendono, e cari. Sono 171.000 i punti vendita, quelli del governo appena 22.000. Perché i prodotti arrivino negli scaffali dei supermercati, c’è bisogno di punti di refrigerazione, di trasporti reticolari coi relativi intermediari e altrettanti rischi di corruzione. E chi detta legge resta l’Associazione nazionale di supermercati e affini, la Cavidea.
La destra dice che nelle imprese statali i lavoratori sono troppo tutelati e i gerenti sono burocrati incapaci…
Il vero problema è il ritardo tecnologico. Nelle fabbriche recuperate o statali, il controllo operaio si scontra col controllo internazionale di quegli stessi che sono stati cacciati: che posseggono la tecnologia e te la vendono a prezzi stellari o cercano di condizionarti perché tu non possa essere autonomo. Se ci riesci, entri nel meccanismo della distribuzione che loro possono pervertire. Ci stiamo scontrando frontalmente con un modello economico che non ammette alternative.
In una rivoluzione, se non cambi la struttura economica e quella della riproduzione del pensiero dominante, non stai facendo una rivoluzione. Per capire cosa c’è in gioco, basta pensare a quello che significavano, per le oligarchie, i proventi della rendita petrolifera in un paese che possiede le più grandi riserve al mondo: dei circa 95mila milioni di dollari che entravano nel paese, si appropriavano di 45-55mila milioni di dollari, usandoli per portarli all’estero insieme ai sussidi alle importazioni decisi dallo stato. Un prodotto che gli costava qualche centesimo, lo vendevano poi nel paese a due dollari, in una triangolazione proficua con i loro terminali locali.
Il capitale gioca sporco perché è nella sua natura. E anche se nazionalizzi, trova modo di continuare a controllare per via indiretta. Le imprese del latte sono una succursale della Nestlé, legate a grandi gruppi neozelandesi, francesi, belgi che hanno il controllo di quasi il 70% del mercato generale. Abbiamo 52 imprese di torrefazione, prima c’era un duopolio che controllava il 72% del caffè. Ora, la Nestlè controlla per via indiretta il mercato del caffè aromatizzato. Di più. Da quando il governo ha nazionalizzato, i produttori vengono finanziati. Solo che, se noi gli compriamo un quintale a un dollaro, la grande compagnia gliene propone 10 in anticipo a patto di tenerle da parte la produzione dell’anno, e offre tutta l’assistenza tecnica necessaria. Comprano la materia prima, il grano verde, e lo smistano attraverso una rete di contrabbando verso la Colombia. Se ne va così circa il 38% del mercato.
Perdiamo fiumi di denaro nel contrabbando di benzina, di denaro, di alimenti. Abbiamo cercato di chiudere le frontiere, ma è un problema molto complicato. Una “mula”, un contrabbandiere proveniente dalla Colombia, in una sola giornata di trasporto guadagna più dello stipendio di un mese. Quando, nel 2006, abbiamo cominciato a studiare a fondo i problemi derivati dal modello basato sulla rendita, ci siamo resi conto che dovevamo agire in modo graduale, anche per non rovinare persone oneste, piccoli imprenditori che avevano lavorato tutta la vita per il paese. Nell’industria petrolifera, a livello tecnologico non eravamo in grado di gestire neanche una torre di perforazione, tutto era contrattato con le imprese internazionali.
Se non controlli la tecnica, il know-how, il tuo proceso può essere una grande allegria per qualche mese, ma poi ti arriva il conto. Oggi siamo sottoposti a un assedio permanente a diversi livelli. A livello internazionale, si deve aggiungere la campagna condotta attraverso i tribunali di arbitraggio, a cui si rivolgono le imprese nazionalizzate come Exxon Mobil, e che hanno sede a Washington, e attraverso la Camera internazionale di commercio che ha sede a Parigi: vale per noi come per l’Argentina, l’Ecuador, la Bolivia. A dargli manforte, le grandi imprese di qualificazione del rischio, come Standard & Poor’s: per sviluppare i programmi sociali, dobbiamo farci anticipare il denaro, ma basta dire che uno stato è insolvente, anche se possiede le maggiori riserve di petrolio al mondo, per imporre prestiti condizionati o interessi altissimi o rimborsi a cortissimo tempo. Ricostruire un paese in simili condizioni di assedio è un’impresa improba.
Ma perché altri paesi dell’Alba come Bolivia e Ecuador vanno meglio?
Ognuno ha la sua storia. Noi abbiamo cominciato per primi, sperimentando subito ogni genere di attacco. Dovevamo far fronte all’eredità pesante di un modello complicato da anni di gestione clientelare e alla crisi del socialismo. Per credere di nuovo in qualcosa, il popolo non voleva più promesse, ma fatti. Per questo, abbiamo cominciato a costruire le Misiones: per aggirare un cambiamento nella struttura dello stato che non era possibile in quelle condizioni. Abbiamo cominciato a pagare l’enorme debito sociale contratto verso il nostro popolo in centinaia di anni di colonialismo. Nel 2007, abbiamo cercato di accelerare con la riforma istituzionale, ma abbiamo perso, anche se per pochissimo. Le forze accomodate in una idea di gestione socialdemocratica, se non peggio, sono ancora molte. E intanto il campo avverso cerca di corrompere il proceso dall’interno, agendo sui nostri punti deboli, sugli intermediari o sui dirigenti incapaci. Le destre non hanno progetto, ma cercano di influenzare l’opinione pubblica per screditare le elezioni. Disprezzano il popolo che invece abbraccia di più la sua rivoluzione.

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