lunedì 24 giugno 2013

I BEFERA STRONCANO GLI IMPERI

DI MAURIZIO BLONDET
effedieffe.com 

Un piccolissimo imprenditore si dà fuoco davanti a una sede dell’Agenzia delle Entrate. Una cinquantina di piccoli imprenditori si sono già tolti la vita, schiacciati dalla triplice ganascia delle banche che non fanno credito, della recessione, dei clienti (o dello Stato) che non pagano, e dell’esazione fiscale.

«Contiamo di fare ancor meglio nel 2012», dichiara Attilio Befera, il capitesta di Equitalia (450 mila euro annui), nel comunicare i trionfi della sua torchia: 12,7 miliardi di euro incassati l’anno scorso, con un aumento del 15,5% rispetto all’anno prima.

Sono anni che gli introiti tributari aumentano del 10-15% annuo – senza che l’economia aumenti affatto. Significa che si taglia nella carne di un Paese che la torchia immiserisce e devasta. 

Ma, dice Befera, «LAgenzia è complessivamente cresciuta in tutti i settori... Un risultato raggiunto grazie alla professionalità dei nostri dipendenti e alle strategie adottate che hanno puntato sempre più ad una maggiore efficacia ed efficienza». 

L’efficienza di cui si vanta Befera è quella che ha fatto crollare l’impero romano. Lo illustrò l’oratore ed apologista Lattanzio (240–320 dopo Cristo), africano. L’imperatore Diocleziano, che regnò dal 284 al 305, spiega Lattanzio, aveva messo in atto una riforma fiscale così efficiente, riorganizzando gli uffici in modo così perfetto, che le tasse venivano prelevate molto meglio di prima. Tanto bene, che i contadini, per la «enormitas indictionum», ossia per il «peso enorme delle tasse», fuggivano di casa per non farsi trovare dagli esattori, «e i campi tornavano a inselvatichirsi». 

Nella sua provincia, l’Africa (che comprendeva il territorio di Tunisia e Algeria), Lattanzio aveva visto strade, villaggi e campagne resi insicuri dall’infuriare dei circumcelliones, lavoratori stagionali – precarii, si direbbe oggi – rovinati dalle tasse e dalla crisi. Abituati a muoversi in gruppi organizzati, percorrevano la provincia prima mendicando e poi taglieggiando, strappando i ricchi dalle loro carrozze e trucidandoli nelle loro ville, ammazzando preti e bruciando chiese (erano donatisti, piissimi, ammazzavano al grido «Deo laudes»). 

Sant’Agostino, vescovo di Ippona, africano, li definisce banditi e pazzi furiosi «perditorum hominum dementissimi greges» che «vagano per la campagna senza partecipare al lavoro dei campi e disturbano il sonno degli innocenti» che «per mangiare si aggirano attorno ai granai». Da ciò – spiega Agostino – il nome di circumcelliones. Ma loro si definivano Agonisticis, lottatori di Cristo e per la giustizia sociale. 

Lattanzio, giunto a Treviri come istitutore del figlio dell’imperatore Costantino, poté constatare che la Gallia era ridotta al disastro da un simile fenomeno sociale: qui erano i «bagaudi» (qualcosa che nel dialetto celtico significava «ribelli autonomisti»), bande ben organizzate di disertori e contadini-evasori fiscali per necessità, che funestavano le campagne spinti dalla fame e dalla disperazione, ma anche da sete di giustizia sociale. Dovunque poterono costituire centri autonomi, eliminarono il latifondo e la schiavitù. 

In Egitto – granaio di Roma e proprietà dell’imperatore, quindi più tartassato di tutte le altre provincie – la spoliazione messa in atto dalla macchina fiscale è ben illustrata dal caso di Sant’Antonio del deserto, il copto Abba Antonio. Antonio ereditò dai genitori 300 arurae di fertili di campi (circa 80 ettari), contro le 40 arurae medie di un fellah egiziano di allora. Era dunque un fellah benestante. O lo sarebbe stato, senza l’efficienza spietata del fisco. Per il pagamento delle tasse, (in sacchi di granaglie), era stato inventato il «sostituto d’imposta»: nel senso che dopo aver fissato una quantità di grano per ogni villaggio egiziano, i funzionari imperiali sceglievano due o tre dei più ricchi del Paese, e li rendevano responsabili del pagamento della tassa da parte della intera comunità: ne rispondevano con il loro patrimonio privato. In tal modo, i designati, per non ridursi essi stessi all’insolvenza, si dovevano fare aguzzini dei loro vicini di casa, estraendo l’ultimo sacco di grano ai contadini più poveri, che già vivevano ai limiti della sussistenza.

Antonio si trovò sicuramente, data la sua ragguardevole proprietà nella condizione di esattore-sostituto, o «curiale», come erano ufficialmente definiti questi malcapitati, che si facevano odiare dai membri del villaggio. Così non è strano che – lui analfabeta – ascoltò da un predicatore cristiano la frase di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quello che possiedi e dallo ai poveri», ebbe l’illuminazione: fuggire al fisco diventava possibile! Bastava non aver più reddito alcuno. E allontanarsi, per prudenza, dove la macchina esattoriale aveva difficoltà a reperire i contribuenti: nel deserto. Il suo biografo (Sant’Atanasio vescovo) attesta che Antonio immediatamente «regalò il suo terreno ai vicini». Il particolare è di cruciale importanza: Antonio non poté «vendere» la sua terra per dare il ricavato ai poveri, dovette «regalarla», perché nessuno la voleva essendo legato a quella proprietà il dubbio privilegio di farsi torchiare a sangue, e diventare aguzzino dei compaesani. Oppure, perché i vicini non gli avrebbero consentito di andarsene nel deserto, se prima non dava loro il cespite e i raccolti con cui placare i funzionari romani. 

Fatto sta che, una volta constatato che nel deserto (ossia probabilmente dietro casa, essendo in Egitto) Antonio riusciva a sopravvivere, attesta Atanasio, «molti uomini facoltosi seguirono Antonio nella fuga (e nell’evasione) del deserto, «per scaricarvi i pesi di questa vita». Nacque così il monachesimo. Gli anacoreti diventarono sempre più numerosi attorno alla caverna di Antonio Abate (Abba, in copto), fino quasi a formare una città di anacoreti. Vivendo in estrema frugalità (due pani di segale al giorno, qualche volta fave e lattuga) ma – Atanasio lo sottolinea esplicitamente – «lì nessuno veniva tormentato dall’esattore delle tasse». 

Il monachesimo fu un successo travolgente. Migliaia di egiziani, non solo contadini ma soldati (per lo più giovani copti arruolati a forza in retate e gettati a combattere barbari biondi nel gelidi Nord) avevano trovato il modo migliore per salvarsi dal demonio e dai Befera del tempo: salvarsi l’anima rinunciando a consumare e praticando l’ascesi, e cessando di produrre ricchezza; niente produzione, niente tassazione. All’impero che aveva voluto (dovuto) tassare troppo, cominciarono a mancare i contribuenti e anche i soldati, che dopo che il cristianesimo era stato riconosciuto dallo Stato (l’editto di Costantino) avevano un modo legale di sottrarsi alla leva, facendosi monaci. Si arrivò al punto che l’imperatore Valente, nel 375, mandò i suoi legionari nel deserto di Nitria a rastrellare sistematicamente gli eremiti nei loro affollatissimi romitaggi. Furono presi e portati in carcere, oppure «stanati dai loro nascondigli» e obbligati a tornare a casa «perché adempissero il loro dovere nella comunità d’origine», narra San Gerolamo: ossia la funzione di sostituti d’imposta. Molti si rifiutarono di tornare a casa, e furono uccisi a bastonate. Valente, nel suo gergo militaresco, li aveva bollati come «ignaviae sectatores», che significa «banda di lavativi», ma anche «volontariamente inattivi, improduttivi». Oppure renitenti alla leva e al fisco «sub specie religionis», con la scusa della religione.

Ma ormai l’efficiente fiscalità romana aveva raggiunto il punto, in cui non valeva più la pena affannarsi a produrre nulla. Questo punto è stato raggiunto in Italia. Che faccia nascere santi eremiti come Antonio del Deserto, pare improbabile data la mentalità corrente. Ma almeno, circumcelliones e bagaudi, sarebbe ora. 

Maurizio Blondet
Fonte: http://www.effedieffe.com
30.03.2012

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