di Mario Di Vito
Fonte : Contropiano.org
Lunedì 08 Luglio 2013 13:46
La propaganda di Francesco, il papa che piace a tutti, fa breccia ovunque. Ecco perché Ratzinger "era meglio di lui".
Quella maledetta sera di marzo tutti ci aspettavamo che su piazza San Pietro si sarebbe affacciato Angelo Scola, o comunque un cardinale arcigno e crudele, un implacabile che si sarebbe lanciato in una lotta senza esclusione di colpi contro il secolarismo, che si sarebbe dato un nome tipo Leone XIV, o comunque qualcosa di abbastanza cattivo da convincere il mondo che, in un modo o nell'altro, il dogma è ancora vivo e la parola di Dio non è uno scherzetto. Non il ritorno alla messa in latino, ma almeno un rigido pensatore à la Ratzinger, un uomo incapace di parlare ai cattolici – tanto è inutile – ma perfettamente in grado di produrre qualcosa di rilevante in termini di profondità teologica.
E invece no, quella maledetta sera di marzo, su piazza San Pietro si è affacciato un argentino con il nome da stopper del Genoa. Jeorge Mario Bergoglio ha salutato la folla con un cordiale «buonasera», ha parlato dell'Argentina come «mondo alla fine del mondo» manco fosse Sepùlveda e si è dato il nome di Francesco, come il santo che rinunciò a tutto per andare a parlare con gli uccellini nella selvaggia Umbria duecentesca.
Ecco, la verità è che, per l'ennesima volta, li avevamo sottovalutati. Ci hanno fregato con un Papa buono, che, di fatto, sta simpatico a tutti, anche agli atei più atei. E continuerà a stare simpatico anche quando si scaglierà contro i gay, la ricerca, il nostro modo di vivere. Si chiama evangelizzazione: va avanti da duemila anni e, piaccia o no, sta sempre almeno un passo davanti a noi.
Ludwig Wittgenstein diceva che il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. Quindi, quando Bergoglio va a Lampedusa per dire che «la società dei consumi ha portato a una globalizzazione dell'indifferenza», non s’intende che donerà tutti i beni della Chiesa ai meno abbienti. Nemmeno che farà qualcosa per combattere la globalizzazione della sofferenza: è solo propaganda. Se un potente segnala un problema, non è detto che si stia battendo per risolverlo. Bergoglio, da buon gesuita, lo sa e sa vendere benissimo la propria immagine, con il brand chiaramente visibile a tutti: «Chiesa Cattolica, noi siamo il bene». Malgrado i libri di storia dicano il contrario, la facciata del credo più diffuso del mondo rimane sempre candida agli occhi di fedeli e non, ora più che mai.
La chiave per colmare il gap della dialettica negativa - l'insormontabile scarto tra la logica e la realtà, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere – è nei termini puramente concettuali emersi in questi primi mesi di pontificato targato Francesco. Il concetto più espresso, fino a questo momento, riguarda la magnificazione della povertà. Sui giornali e nell'immaginario collettivo, questo passa come «il Papa sta con i poveri», in realtà l'elogio della povertà è una delle affermazioni più ideologiche e reazionarie degli ultimi secoli. Oltretevere lo sanno che la povertà non è un valore ma uno schifo? Lo sanno che la gente, in maniera sempre maggiore, si suicida perché si vergogna della propria miseria?
Domande retoriche, ma una risposta c'è: sì, lo sanno. Per questo magnificano il concetto di povertà, perché i poveri si sentano socialmente migliori di quello che sono, anche se in realtà questo non è vero. La società (post)industriale avanzata emargina chi ha meno, e questo è un fatto. Santificare «l'avere meno» è un modo perché tutto rimanga com'è, perché non succeda niente, perché chi ha sempre meno non si ribelli mai a chi ha di più. La Storia, per la Chiesa, non è Storia di lotta di classe. Francesco ne è consapevole, e allora bara. È uno spacciatore di oppio dei popoli. E per certi usi Marx torna utile solo adesso, ché il comunismo storico è quasi scomparso dalla faccia della terra.
Joseph Ratzinger era politicamente inaccettabile. Ma era chiaro, non barava. Lui, con una profondità teologica effettivamente non comune, portava avanti le crociate di sempre. Perché la Chiesa è quello che è e non può essere diversa, è un’entità irriformabile, scolpita nel tempo. Dogmatica per definizione. Nell'enciclica scritta a quattro mani da Francesco e Benedetto questo particolare emerge con chiarezza: il primo parla di Madre Teresa di Calcutta – emblema di bontà e sacrificio –, il secondo si lancia in un corpo a corpo con Dostoevskij sul significato di Cristo in Croce. Questo non solo ci chiarisce che Ratzinger è un teologo, mentre Bergoglio è “solo” un parroco; ma ci dà anche un'idea del fatto che mentre il tedesco punta a un predominio teorico – dunque, preferibile anche in termini di dibattito –, l'argentino sfrutta la potenza di fuoco di un'istituzione mastodontica come la Chiesa per affermare un discorso prettamente politico e mantenere lo stato delle cose così com'è: proclamare il cambiamento per non attuarlo mai. Cambiare una religione è impossibile, dacché questa si basa su presupposti immutabili. Tutto il resto è soltanto propaganda.
Quella maledetta sera di marzo tutti ci aspettavamo che su piazza San Pietro si sarebbe affacciato Angelo Scola, o comunque un cardinale arcigno e crudele, un implacabile che si sarebbe lanciato in una lotta senza esclusione di colpi contro il secolarismo, che si sarebbe dato un nome tipo Leone XIV, o comunque qualcosa di abbastanza cattivo da convincere il mondo che, in un modo o nell'altro, il dogma è ancora vivo e la parola di Dio non è uno scherzetto. Non il ritorno alla messa in latino, ma almeno un rigido pensatore à la Ratzinger, un uomo incapace di parlare ai cattolici – tanto è inutile – ma perfettamente in grado di produrre qualcosa di rilevante in termini di profondità teologica.
E invece no, quella maledetta sera di marzo, su piazza San Pietro si è affacciato un argentino con il nome da stopper del Genoa. Jeorge Mario Bergoglio ha salutato la folla con un cordiale «buonasera», ha parlato dell'Argentina come «mondo alla fine del mondo» manco fosse Sepùlveda e si è dato il nome di Francesco, come il santo che rinunciò a tutto per andare a parlare con gli uccellini nella selvaggia Umbria duecentesca.
Ecco, la verità è che, per l'ennesima volta, li avevamo sottovalutati. Ci hanno fregato con un Papa buono, che, di fatto, sta simpatico a tutti, anche agli atei più atei. E continuerà a stare simpatico anche quando si scaglierà contro i gay, la ricerca, il nostro modo di vivere. Si chiama evangelizzazione: va avanti da duemila anni e, piaccia o no, sta sempre almeno un passo davanti a noi.
Ludwig Wittgenstein diceva che il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. Quindi, quando Bergoglio va a Lampedusa per dire che «la società dei consumi ha portato a una globalizzazione dell'indifferenza», non s’intende che donerà tutti i beni della Chiesa ai meno abbienti. Nemmeno che farà qualcosa per combattere la globalizzazione della sofferenza: è solo propaganda. Se un potente segnala un problema, non è detto che si stia battendo per risolverlo. Bergoglio, da buon gesuita, lo sa e sa vendere benissimo la propria immagine, con il brand chiaramente visibile a tutti: «Chiesa Cattolica, noi siamo il bene». Malgrado i libri di storia dicano il contrario, la facciata del credo più diffuso del mondo rimane sempre candida agli occhi di fedeli e non, ora più che mai.
La chiave per colmare il gap della dialettica negativa - l'insormontabile scarto tra la logica e la realtà, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere – è nei termini puramente concettuali emersi in questi primi mesi di pontificato targato Francesco. Il concetto più espresso, fino a questo momento, riguarda la magnificazione della povertà. Sui giornali e nell'immaginario collettivo, questo passa come «il Papa sta con i poveri», in realtà l'elogio della povertà è una delle affermazioni più ideologiche e reazionarie degli ultimi secoli. Oltretevere lo sanno che la povertà non è un valore ma uno schifo? Lo sanno che la gente, in maniera sempre maggiore, si suicida perché si vergogna della propria miseria?
Domande retoriche, ma una risposta c'è: sì, lo sanno. Per questo magnificano il concetto di povertà, perché i poveri si sentano socialmente migliori di quello che sono, anche se in realtà questo non è vero. La società (post)industriale avanzata emargina chi ha meno, e questo è un fatto. Santificare «l'avere meno» è un modo perché tutto rimanga com'è, perché non succeda niente, perché chi ha sempre meno non si ribelli mai a chi ha di più. La Storia, per la Chiesa, non è Storia di lotta di classe. Francesco ne è consapevole, e allora bara. È uno spacciatore di oppio dei popoli. E per certi usi Marx torna utile solo adesso, ché il comunismo storico è quasi scomparso dalla faccia della terra.
Joseph Ratzinger era politicamente inaccettabile. Ma era chiaro, non barava. Lui, con una profondità teologica effettivamente non comune, portava avanti le crociate di sempre. Perché la Chiesa è quello che è e non può essere diversa, è un’entità irriformabile, scolpita nel tempo. Dogmatica per definizione. Nell'enciclica scritta a quattro mani da Francesco e Benedetto questo particolare emerge con chiarezza: il primo parla di Madre Teresa di Calcutta – emblema di bontà e sacrificio –, il secondo si lancia in un corpo a corpo con Dostoevskij sul significato di Cristo in Croce. Questo non solo ci chiarisce che Ratzinger è un teologo, mentre Bergoglio è “solo” un parroco; ma ci dà anche un'idea del fatto che mentre il tedesco punta a un predominio teorico – dunque, preferibile anche in termini di dibattito –, l'argentino sfrutta la potenza di fuoco di un'istituzione mastodontica come la Chiesa per affermare un discorso prettamente politico e mantenere lo stato delle cose così com'è: proclamare il cambiamento per non attuarlo mai. Cambiare una religione è impossibile, dacché questa si basa su presupposti immutabili. Tutto il resto è soltanto propaganda.
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