giovedì 25 aprile 2013

Italia kaputt, a Palazzo Chigi il super-piazzista dell’euro


Euro sì. Morire per Maastricht”. Era il 1997 ed Enrico Letta annunciava, nel suo saggio pubblicato da Laterza, che sarebbe valsa la pena di morire per l’euro e Maastricht come nel 1939 valeva la pena di “morire per la Polonia”. «Non c’è un paese che abbia, come l’Italia, tanto da guadagnare nella costruzione di una moneta unica», disse al “Corriere della Sera”, al termine del suo primo incarico importante, la partecipazione alla commissione per l’introduzione dell’euro. «Abbiamo moltissimi imprenditori piccoli e medi che, quando davanti ai loro occhi si spalancherà il grandissimo mercato europeo, sarà come invitarli a una vendemmia in campagna: è impossibile che non abbiano successo, il mercato della moneta unica sarà una buona scuola, ci troveremo bene». Questo è l’uomo a cui l’appena rieletto Napolitano affida il “governissimo”.
«Enrico Letta di tutti i politici italiani è il più affidabile, è il cane più fedele ai padroni esteri», scrive “Come Don Chisciotte”. «Letta è stato dall’inizio un Enrico Letta 2fanatico talebano dell’euro e giustamente ora i suoi padroni lo ricompensano nominandolo premier, con la complicità di Berlusconi che vuole evitare le condanne». Membro del comitato europeo della Commissione Trilaterale, super-clan mondiale neoliberista fondato nel 1973 da David Rockefeller, Letta ha partecipato nel 2012 alla riunione del Gruppo Bilderberg a Chantilly, in Virginia, Usa. L’ex vice di Bersani, aggiunge il blog, è anche membro del comitato esecutivo dell’Aspen Institute Italia, «un’organizzazione americana finanziata anche dalla Rockefeller Brothers Fund», che si pone come obiettivo quello di promuovere leadership fidate, basate su “idee e valori senza tempo”.
«Questo è un tizio a cui andrebbe tolta la cittadinanza, come si fa con i clandestini – conclude “Come Don Chisciotte” – perchè è una quinta colonna, una spia, un infiltrato». Eppure, l’apparenza si incarica di dipingere un altro ritratto: la mitezza è stata finora la misura dominante della maschera pubblica del successore di Mario Monti. Uno che, giovanissimo, giocava a tennis con due spettacolari devastatori europei, Tony Blair e Giuliano Amato, all’epoca in cui il centrosinistra italiano fingeva di combattere Berlusconi e quello inglese terminava l’opera di demolizione sociale avviata da Margaret Thatcher, smantellando la sinistra e svuotando da cima a fondo l’anima laburista che aveva costruito il leggendario welfare dei diritti. Enrico Letta è «così bravo, ben educato, disponibile e prudente che sembra lo zio Gianni: insieme non fanno una famiglia ma compongono Berlusconi e Lettaun sistema di potere equivicino», lo tratteggia Antonello Caporale sul “Fatto”.
L’ex ministro più giovane d’Italia al tempo del governo Prodi «ha sempre le idee ben pettinate» e dimostra «la capacità di stare quasi sempre dalla parte che vince». Fino a ieri vice di Bersani, e quindi «vice-disastro», a differenza del segretario appena “smacchiato” dagli elettori ha semplicemente «aperto l’ombrello e schivato la pioggia», scrive Caporale. Enrico? «E’ un bravo democristiano, limpido e solare. Non urla ma dibatte. Non decide, lui concerta. Non invita, lui auspica. E’ perfetto nella figura del presidente-arbitro: conterà poco, perchè dietro di lui si staglia l’ombra di re Giorgio, ma a quel poco ci tiene tantissimo». Sempre «immobile al centro dell’universo», Enrico Letta «attende che le stelle lo conducano dove egli spera». Ed è stato così anche adesso: «Non una parola, un cenno, una sgomitata. Gli altri hanno lavorato per lui. Per capirci: gli amici del Pdl». Cioè Berlusconi e l’altro Letta, «l’amato zio Gianni».
Sembra la logica conseguenza di quella ormai lontana partita di tennis con Blair, l’uomo a cui l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu si rifiuta di stringere la mano per i troppi  crimini commessi, a cominciare dalla madre di tutte le menzogne, quella sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Tutto questo avviene oggi, grazie al crollo definitivo dell’equivoco democratico rappresentato dal Pd, vera e propria illusione ottica di massa. Siamo di fronte al fallimento totale del progetto politico lanciato con grande clamore nel 2007, scrive John Foot su “Internazionale”, proponendo una drammatica autopsia del non-partito di Bersani e Letta a partire dalla “resa” della segreteria il 23 aprile. «Il set era in stile anni cinquanta: una stanza, qualche sedia, un simbolo triste alle spalle. Quattro persone sedute dietro a una scrivania: facce tristi, tirate. Al lato, un podio di legno ingombrante da Bersanicui parlavano una serie di persone chiamate dal palco. L’evento era la direzione del Pd, trasmessa in streaming come adesso, dopo la cosiddetta rivoluzione di Grillo, si deve fare sempre».
Due delle quattro persone sedute dietro la scrivania si erano già dimesse, annota Foot, eppure stavano ancora lì: «Erano degli sconfitti», non solo dalle elezioni «ma anche dalla storia». Stavano lì e parlavano tra di loro «in un linguaggio assolutamente incomprensibile, vecchio, datato, superato, obsoleto. Erano loro stessi obsoleti». Niente di strano: la loro vita normale di tutti i giorni, da politici di professione. Persone che «della vita di fuori, normale, e del linguaggio usato dalle persone normali, non sanno assolutamente niente». Il Pd è esattamente questo, dice Foot: «Mai provato ad andare a un riunione del Pd per esempio a Milano? Sono così, esattamente come erano descritti da Michele Serra negli anni ottanta nel suo libro “Il nuovo che avanza”. Per anni la gente li ha votati solo perché non erano Berlusconi, turandosi il naso, senza entusiasmo».
L’ultima direzione in streaming? E’ stato «un momento antropologico», che svela impietosamente «il ritratto di un gruppo di persone senza un progetto, senza un’idea originale, senza una strategia, senza un senso del mondo reale, senza la capacità di comunicare neanche tra di loro». Una visione della politica allo sbando: «Andrebbe studiato nelle università con un seminario dal titolo: “La fine di un mondo”». Quella dell’Italia, di fatto, è già cominciata: grazie al Fiscal Compact, il paese non potrà più fare investimenti per i cittadini, superiori al complesso del gettito fiscale. In altre parole, come denunciano gli economisti democratici, è la condanna dell’economianazionale. Identica a quella della Spagna, del Portogallo, della Grecia, dell’Irlanda e, domani, della Francia. Di questo dovrebbe parlare la politica, se volesse tentare di salvare il paese anziché consegnarlo ai suoi “predatori”, dando semplicemente in appalto le istituzioni: ieri all’uomo della Goldman Sachs e della Commissione Europea, oggi al giovane collega del Bilderberg, dell’Aspen Institute e della Trilaterale di Kissinger e Rockefeller.

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