sabato 3 agosto 2013

Interessantissima autobiografia di Silvano Agosti,ed una critica molto azzeccata su Pasolini

Da questo link http://www.gondrano.it/immag/immag.htm l"intera intervista
Non si può acquistare un lampo o un tuono o l'oceano
(quinta parte)
Ingmar BergmanE' Bergman che ti ha costretto a continuare a fare cinema dopo l'esperienza del Giardino delle Delizie.
Sì, mi ha costretto. Mi ha tenuto per la camicia e ha detto:« Non ti lascio andare via di qui, se non mi prometti che andrai avanti a fare del cinema». Io che ho sempre avuto una specie di implacabile coerenza rispetto alle mie decisioni, pensai: “Meno male che non mi ha detto di fare i film, io andrò avanti a fare del cinema”. Da allora sono andato avanti facendo unaricerca cinematografica che ovviamente deve scaturire in un film, se non altro per pagarmi le spese. Però il mio interesse, da allora, è sempre stato un percorso di ricerca che c’era già stato con Violino. Sarei andato avanti a fare del cinema, sicuramente, non tradendo né lui né me. Questo viatico, queste quattro ore di dialogo con Bergman, nell’atrio semibuio del Film Institute di Stoccolma, mi ha protetto in seguito da qualsiasi evento. Bergman poi ha smesso di fare cinema. Quarant’anni dopo.
Attualmente si sta occupando solamente di teatro.
Solamente! Intanto lui ha sempre prediletto il teatro al cinema, poi ha novant’anni. E’ vero che Verdi a novant’anni ha scritto il Faust.
Ho letto da poco un’intervista in cui sostiene di avere abbandonato il cinema perché è un’ambiente di lestofanti in cui non si riconosce più.
Anch’io ho rifiutato il mondo del cinema, vedendo girare un film a Cinecittà e rendendomi subito conto quanto fossero malvagi i rapporti umani. Non c’era nessuna affettività, nessuna coralità, non c’era niente altro che malvagità. Non sono mai voluto entrare nel mondo del cinema, mai. Ho letto una mia cosa l’altro giorno dove si dice: “Sono sempre più convinto che solo chi è fuori dal cinema può amare veramente il cinema”. E’ un libro che ha scritto Tullio Masoni, dove vengo intervistato e invitato a parlare di Zavattini. Stare fuori dal mondo del cinema vuol dire che non si devono chiedere denari allo Stato, che non si ha bisogno di un produttore, ma non vuol dire che i miei materiali non li stampi a Cinecittà, pagando, naturalmente. Non sono d’accordo con lo Stato italiano però vado in treno, non vedo perchè dovrei andare a piedi per coerenza.
Intanto, le rivolte sociali del ‘68 bussano alla porta della storia. In solitudine, con una piccola macchina da presa in spalla, hai documentato quegli eventi.
Siamo au debut. All’inizio, al vero inizio. La mia vita è costellata di inizi e il ‘68 è un ennesimo inizio. L’esperienza del ‘68 l’ho conclusa, credo, in modo abbastanza armonico nel 1998, facendo Trent’anni di oblio. Trent’anni di oblio, certamente non da parte mia, ma di oblio da parte di coloro che neppure avevano memoria del ‘68. Intanto ho cercato di sconfiggere questa operazione veramente turpe: il rinchiudere dieci anni di strepitose lotte sociali dentro il ‘68. Come se uno chiudesse tutta l’opera di Dante Alighieri in un suo sonetto. Trent’anni di oblio è strutturato in 14 puntate di mezz’ora l’una che abbiamo proiettato al Festival di Locarno, con una notevole affluenza di pubblico. Esistono due versioni: una di sette ore e una di quattro. Diciamo che quello che ho capito in modo definitivo di quegli anni, è la funzione che ha l’apparato informativo. L’apparato informativo è armonicamente collegato con l’apparato scolastico; l’apparato scolastico è nato per formare le persone e le deforma; l’apparato informativo è veramente adibito alla deformazione dell’informazione. Non esiste una sola informazione che sia corretta e che non sia mediata rispetto alle necessità politiche di chi gestisce l’informazione. Su questo ho avuto la certezza totale, da allora, con innumerevoli conferme.
Alberto GrifiAlberto Grifi mi ha raccontato che i giornalisti di regime pubblicavano i loro articoli copiando le veline passate loro dalle questure e dai politici.
Sì. Ma vedi, io consapevole di questo, ho fatto un’operazione curiosa nel ‘68. Ho pagato, perché tanto si possono sempre comprare i giornalisti del potere: ho comprato la voce per eccellenza del Giornale Radio. Gli ho fatto fare dei Giornali Radio finti, tutti a favore del Movimento Studentesco. Mi ricordo che questo era stupefacente, perché sentivi la voce del potere che dava, finalmente, all’informazione una funzione reale. Avevo anche progettato di prendere tutti i documentari dell’ARCI-P.C.I., che erano molto blandi politicamente, cambiare lo speaker in senso guevariano, insomma di “Che” Guevara, e poi rimetterli in circolo, tanto nessuno se ne sarebbe accorto prima di tre-quattro anni. Avevo con estrema precisione capito questi meccanismi, quando, dopo aver partecipato a un corteo dove c’erano sicuramente quarantamila persone, sentii alla televisione: “Alcune centinaia di studenti hanno percorso le vie di Roma”. Quindi è nato in me il desiderio di dedicarmi totalmente alla controinformazione. Pensai: “Non è possibile che storicamente, come documento di accesso a questi eventi, ci sia solo l’informazione di regime. Ce ne dev’essere un altro, e ho incominciato a documentare, incappando in personaggi straordinari come per esempio Vanessa Redgrave, la quale dopo aver visto il mio film sui Cinegiornali, mi ha firmato un assegno di cinquecentomilalire, che allora era una cifra enorme. Anche Moravia mi invitò a casa sua e mi offrì del denaro. Con quei soldi sono andato avanti a girare per molto tempo, utilizzando una macchinetta a molla e sentendomi investito di questa straordinaria responsabilità. E sono passato indenne dalle situazioni più tremende, più trucide, più violente. Nessuno mi poteva toccare, perché io rappresentavo l’occhio della storia, in un certo senso. Anche con la mia vigile abilità, nel senso che avendo percorso il mondo, ero capace di vedere con quaranta occhi invece che con due. Ho vissuto questa stagione appassionata di informazione.
Sei l’unico che ha documentato con taglio controinformativo questi avvenimenti?
Ci fu una storica riunione all’ANAC, che era l’Associazione Nazionale Autori Cinematografici, dove fui invitato a entrare nell’associazione. In una mozione di dodici righe, suscitai una reazione enorme, spiegando perché non volevo entrare, e perché, invece, invitavo tutti gli autori ad attaccare la macchina da presa industriale al chiodo, prendere una macchinetta, e andare per strada a documentare la storia. A questa riunione, ricordo, la discussione si protrasse fino alle sette e mezzo del mattino. Erano presenti tutti: Pontecorvo, Petri... Io spiegai perché non volevo entrare e perché era importante che si sciogliesse l’ANAC, sostituendola con un’assemblea permanente di tutti coloro che operavano nel cinema. Dissi anche: «Vi comunico che ho calcolato che sommando il denaro che prendono i quindici, venti registi, foraggiati dall’industria, noi possiamo dare una paga di cinquecentomilalire a tutti i ventimila che operano nel cinema in Italia. Petri si mise a urlare:«Ma si può sapere cosa vuoi, cosa dobbiamo fare». «Petri, ognuno deve togliersi l’osso dalla bocca, tu quello grosso che hai, io quello piccolo, prima di poter parlare». In quella riunione, nacque l’ipotesi, con Samperi e qualcun’altro, di trovarci per documentare, ma all’appuntamento in piazza Repubblica arrivai solo io.
Bernardo Bertolucci inizialmente ti ha dato una mano?
Bernardo Bertolucci lo filmai mentre seguiva un corteo, fece alcune riprese per uno o due giorni, poi, a Valle Giulia, prese una bastonata da un carabiniere mentre scavalcavamo una rete e non si fece più vedere. In compenso c’era sempre un omino della CIA che filmava.
E Bellocchio?
Bellocchio era interessato ad altre cose, ha avuto un destino completamente diverso, perché non avendo questo senso viscerale dell’autonomia che avevo io, era entrato nel gruppo dei Marxisti-Leninisti, dove è stato usato come Lou Castel. Poi Bellocchio aveva un senso elitario di classe molto forte, quando gli assegni che gli facevano firmare cominciarono a diventare consistenti, disse: « No, mi dispiace, arrivederci». Mentre Lou Castel diede tutto quello che aveva, centinaia di milioni al partito. Un giorno mi chiamò con le lacrime agli occhi e mi disse: « Vieni a vedere », e mi mostrò una cinquecento, « me l’ha regalata il partito ». “Certo, con tutti i soldi che ti hanno fregato”. Il Sessantotto oscillava continuamente, tra la maestosa dignità della storia e questo grottesco individuale che arrivava sempre alle caratteristiche del patetico.
Grifi ha filmato qualcosa?
Non credo, non mi risulta. Lui ha filmato più che altro delle testimonianze di carcerati, perchè aveva una vicenda completamente diversa. Grifi lo definisco un angelo dalle ali spezzate, infatti nel mio ultimo film, La ragion pura, gli ho fatto fare l’angelo. E’ come un’annunciazione, solo che lui annuncia un’aborto e non una nascita, è una cosa un po' curiosa.
Pier Paolo PasoliniTu sostieni che Pasolini, invece, non aveva capito niente del Sessantotto.
Credo che Pasolini avesse una lunghezza d’onda... Posso dire insieme a un raffinatissimo studioso francese, che non bisogna confondere mai la profondità del mare con la lunghezza della propria sonda. Credo proprio che Pasolini abbia confuso la propria capacità di vedere il quadro politico, con il quadro politico reale. Lui ha continuamente adattato alla propria sensibilità poetica la propria visione del mondo, mentre i grandissimi poeti hanno fatto esattamente il contrario, hanno sempre adattato la propria sensibilità al quadro politico del mondo. In questo modo non costringi l’analisi del mondo all’interno di qualcosa, sia pur portentosa come la creatività poetica di Pasolini, ma avvolgi con la tua sensibilità poetica il dato del reale. Quindi, questo è il grande equivoco. Per cui Pasolini credeva di vedere il mondo dicendo che i poliziotti erano dei proletari della Calabria, ma non erano i poliziotti il problema, il problema era chi li guidava. Il fatto è che il poliziotto non è niente, lo sappiamo tutti che è esattamente come il proprio manganello. Ma tu nel difendere il manganello, difendi anche quelli che lo mandano a massacrare, a dare calci nella pancia alle donne incinte, come ho visto fare io; a cavare un occhio a un ragazzo, a calci in faccia. Pasolini senza saperlo è stato uno strumento portentoso di freno, tanto è vero che l’ha anche pagata cara. A Venezia i giovani gli sputarono addosso. Non che fosse malvagio o reazionario, semplicemente non aveva capito. Aveva questa ingenuità estrema di credere che tutto fosse legato all’iniziativa del poliziotto, ma il poliziotto era tra due fuochi: fra quello che lo costringeva a fare una cosa ripugnante e quello che lo menava. Quando Pasolini scrisse la poesia in difesa dei poliziotti replicai dicendo: “Pasolini è stanco, facciamolo riposare”. Ho sempre avuto una duplice emozione nei confronti di Pasolini: un sentimento di immensa pena per questo fascismo viscerale che abitava in lui, nel più intimo del profondo, dovuto alla sua origine di classe. Figlio di u n capitano dell’esercito, quindi figlio del potere, che lo deve avere eroso come quella volpe che il ragazzino del mito portava nascosta nel ventre e lo divorava. Pasolini per liberarsene, nei rapporti erotici, si comportava da feroce fascista. Poi questa stupenda luminosità poetica che lo caratterizzava, questa incorruttibile componente d’infanzia che faceva di lui un vero eroe. Sono due convergenze piuttosto micidiali, sicuramente tragiche. Tant’è vero che ha dato una statura tragica alla propria vita e anche alla propria morte. Ha affidato il proprio suicidio a questa tremenda forza interna, per gestirla. Questo l’ho capito in modo definitivo quando ho visto Salò e le 120 giornate, dove lui descrive il fascismo in modo fascista. Non voglio fare paragoni, ma nel mio film, Nel più alto dei cieli, ho rappresentato delle aberrazioni immensamente più strazianti di quelle rappresentate nel film di Pasolini: torture, persone che si mangiano tra di loro, però è un film che faccio vedere anche a un bambino di nove e dieci anni, perché non si vede nulla. Ora io non perdonerò mai a Pasolini l’inquadratura in cui fa vedere che tagliano la lingua a una persona, non gliela posso perdonare, perché è l’opposto puro di quello che lui era e che voleva dire.
Inizialmente questo film avrebbe dovuto dirigerlo Sergio Citti, che avrebbe voluto farlo ancora più crudo di quanto invece abbia fatto Pasolini.
Non si tratta di più crudo o meno crudo. Nel mio film c’è addirittura un gesuita e una suora che mangiano una sordomuta viva, però cosa si vede. Si vede una mano. Nel suo c’è una segreta, profonda, affascinata ammirazione per il fascismo e questo è terribile. Mi prendo la responsabiltà di queste percezioni che ho avuto.
Era conscia o inconscia in Pasolini questa ammirazione per il fascismo, secondo te?
L’espressione tormentata che il suo volto aveva assunto, sta a significare che doveva esserci una parte di coscienza, perchè aveva una faccia terribile alla fine, paragonabile solo a quella di Agnelli. Ho avuto paura nel vedere la faccia di Pasolini nell’ultimo anno di vita, aveva una faccia tremenda, un teschio praticamente, dove l’angoscia, come le onde del mare, l’avevano erosa, cancellando ogni espressione di umanità. Rimane però questo grande mistero intatto della sua poeticità.

Silvano Agosti

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