venerdì 9 agosto 2013

La servitù accettata


Il più grande ostacolo all’emancipazione del proletario risiede in se stesso. Il vero disastro per l’operaio è la sua arrendevolezza nei confronti della propria miseria, il suo modo di adattarsi e consolarsi della propria impotenza. Eppure l’esperienza gli ha ben insegnato che non può attendersi nulla dal sistema che l’opprime e che non potrà uscirne senza lottare. Ma preferisce continuare a sfogarsi a vuoto e a rivestire la propria passività di apparente collera. Il fatalismo e la rassegnazione dominano nei ranghi operai. È chiaro, ci saranno sempre i padroni, che del resto ci sono sempre stati; non c’è granché da sperare quando si è nati dalla parte sbagliata della barricata. Certo, capita che il proletario si irriti e non accetti più una situazione che giudica insopportabile. Ma lo fa per mettere a punto un piano d’azione? No! Non potendo raggiungere quelli che prosperano alle sue spalle, scarica il proprio risentimento su quelli che incontra all’angolo della strada; sui piccoli malavitosi, sugli arabi e gli altri stranieri. Gli sembra quasi di mantenerli. Per le stesse ragioni ce l’ha con la sua donna e i suoi figli, se non gli danno le soddisfazioni che si aspetta e non compensano il suo sentimento di inferiorità sociale con un matrimonio impeccabile e buoni risultati scolastici. L’impiegato si smarcherà con orgoglio dall’operaio che s’insudicia le mani e in cambio sarà disprezzato come un parassita imbrattacarte. Il sindacalizzato si sentirà superiore a chi non lo è ancora ma che deve aiutare ad acquisire una coscienza. In cambio gli offrirà un facile argomento di battute. Anche quando non si è inaridito, incapace di riconoscere quel che c’è di buono nella vita e la sua parte di possibilità il proletario resta prigioniero del suo limitato modo di vivere. Accetta la propria servitù fino al punto di riconoscere, a una certa età, che le cose miglioreranno progressivamente e che i giovani scontenti dovrebbero saper apprezzare le «conquiste» acquisite. Esiste un sentimento comunemente condiviso dai proletari di tutti i paesi. Non è l’internazionalismo, bensì la sensazione che altrove le cose potrebbero essere peggiori… Tanto vale non schiodarsi dal proprio posto, dato che è vicino, e per lo stesso lavoro… Nella disgrazia generale, il lavoratore ha almeno la consolazione di aver trovato un rifugio. Il lavoro resta la migliore delle polizie. Tiene ciascuno a freno e ostacola potentemente lo sviluppo della ragione, dei desideri, del gusto per l’indipendenza, dato che consuma una straordinaria quantità di forza nervosa sottraendola alla riflessione, al fantasticare, all’amore; facendo balenare di continuo uno scopo meschino e assicurando soddisfazioni mediocri ma regolari. Così una società in cui si lavora duro avrà maggiore sicurezza: e oggi la sicurezza viene adorata come una divinità.
 Ci sono ancora imbecilli che onorano la ripugnante attività e non la rifuggono spontaneamente. Colui che giorno dopo giorno mina la propria salute potrà essere fiero dei suoi bicipiti e si rallegrerà di non aver più bisogno di fare sport per essere in forma. In certe fabbriche domina una vera e propria mentalità olimpionica. Il salario a cottimo e i premi non sono nemmeno necessari affinché ciascuno ricerchi il suo piccolo record.


 Con aperto disprezzo o paternalismo per chi non è capace o se ne infischia. Tuttavia è sempre più difficile credere alla reale utilità di ciò che si fa; l’indifferenza e perfino il disgusto nei confronti del lavoro guadagnano terreno. Eppure chi smette di lavorare spesso non si sente a posto con la propria coscienza. Malati o disoccupati, molti hanno paura di non essere all’altezza, si vergognano di lasciarsi andare. Colui che si misura nel lavoro è convinto di provare a se stesso di non essere uno scarto e di possedere una utilità sociale. Qui si tocca con mano il carattere fondamentale della miseria proletaria: senza lavoro la vita non ha più consistenza, non ha senso né realtà. Non è l’interesse per il proprio compito a riportare al lavoro, è piuttosto la noia, oltre al bisogno di un salario. La routine della vita quotidiana può far pensare che l’accesso al dopo-lavoro o perfino la disoccupazione siano una liberazione. Bisogna diventare disoccupati o pensionati per constatare il contrario. La pensione o la disoccupazione sono il lavoro al grado zero. La miseria moderna non si esprime attraverso la mancanza di svaghi o la penuria di beni di consumo, ma con la separazione di tutte le attività, la frammentazione del tempo, l’isolamento degli uomini. Da un lato, un’attività produttiva spesso forsennata, polverizzata, dove le necessità produttive del capitale fanno dell’uomo la carcassa del tempo, strumento fra gli strumenti. Dall’altro lato, il tempo libero in cui l’uomo presume di appartenersi ma dove, addomesticato dall’educazione e abbrutito dal lavoro, è privato di tutto dal bisogno di pagare. Il consumare e soprattutto i sogni consentiti dal consumo restano l’ultima consolazione. L’operaia, la commessa o la segretaria, oltre al tempo dedicato a guardare le vetrine e alla lettura di fotoromanzi, impiegano la loro vitalità a innalzare il proprio rango sociale attraverso visibili sforzi dedicati alla propria immagine. La «femminilità» potrà essere pienamente soddisfatta grazie ai miracoli dei più disparati prodotti a disposizione. Il desiderio d’essere considerata e l’adesione sottomessa alle rappresentazioni servili della donna si mescolano per meglio beffarla sulla realtà del suo destino. La «famiglia» operaia accarezza l’idea di quella piccola casetta di periferia che un giorno le apparterrà e che «sarà finalmente casa nostra». Ma prima di tutto c’è l’automobile. Si sogna di comprarla, di cambiarla. È la misura della ricchezza e del saper-vivere, e fornisce un inesauribile argomento di conversazione. Anche se l’operaio preferisce confidare al barista i guai che ha con sua moglie o mostrargli le foto dei figli, il garagista rimane il suo autentico confidente. Spesso l’operaio si mostra diffidente nei confronti della politica, ma assai raramente rivolge critiche alla politica e ai politici. Inorgoglito dall’importanza momentanea che gli viene accordata ed eccitato dal lato sportivo della faccenda, non rifiuta di volta in volta di andare a deporre la sua scheda elettorale. Basta che il vento dell’«Unione» ricominci a soffiare affinché tutte le sue illusioni apparentemente sbiadite si ravvivino. Poco importa che la sinistra abbia regolarmente tradito le speranze che la masse riponevano in essa, che i socialdemocratici abbiano spedito in guerra nel 14, partecipato ai peggiori compromessi borghesi, appoggiato la repressione coloniale. Quanto ai presunti comunisti, non appena arrivano al potere fanno peggio che abbandonare la difesa degli interessi operai: chiedono di lavorare duro e non esitano a reprimere fisicamente il proletariato come a Kronstadt, a Barcellona o a Budapest. Ma che ne sa l’operaio della storia delle lotte proletarie? Della Comune di Parigi, della rivoluzione russa, degli scioperi sotto il Fronte Popolare, non conosce che i santini che gli apparati politici e gli istitutori della sinistra hanno elaborato a suo uso e consumo. Se aderisce ad un partito stalinista, il «lavoratore» denuncerà i profitti abusivi dei monopoli e le speculazioni vergognose dei promotori immobiliari. Ma non gli passa per la testa di capire cosa siano veramente il profitto e la funzione del padrone. Non vedrà che furti, parassitismo, abusi delle «duecento famiglie», e non certo le funzioni economiche che soprattutto si dovrebbero liquidare fin dalle fondamenta: capitale e salariato. Non appena si tratta di un paese modello e socialista, Svezia o Cuba dipende dai gusti, quei profitti, quei fasti, quegli uffici sontuosi, quei villini al servizio del popolo gli sembreranno subito più onesti. Che un qualsiasi grasso burocrate sia un «dirigente operaio», e il suo stile di vita diventerà un esempio di dignità operaia. Nei paesi in cui il proletariato esercita la sua dittatura, quale non deve essere la soddisfazione dell’operaio – la mattina, quando arriva in fabbrica e alza il caschetto davanti al caposquadra – nel sapere che di fatto è lui il proprietario della sua impresa, e in fin dei conti il superiore dei suoi superiori… Il nemico del proletariato non è tanto il potere dei capitalisti o dei burocrati, quanto la dittatura delle leggi dell’economia sui bisogni, sull’attività e sulla vita degli uomini. La contro-rivoluzione moderna è imperniata sulla difesa della condizione proletaria e non sulla salvaguardia dei privilegi borghesi. È in nome del proletariato e delle esigenze economiche, con l’aiuto dei suoi rappresentanti politici e sindacali, che si cerca di salvaguardare la società capitalista.


Tratto da: http://www.italianinsane.info/2013/la-servitu-accettata/

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