domenica 5 febbraio 2012

Papalagi,la malattia del pensare

LA GRANDE SAGGEZZA DI UN CAPO SAMOANO,il papalagi è l"uomo bianco, in rete si trova facilmente il fantastico libro ,dal titolo PAPALAGI

Quando la parola «spirito» sale alle labbra del Papalagi, i suoi occhi si ingrandiscono, si fanno tondi e fissi; gonfia il petto, respira pesantemente e si stira come un guerriero che ha sconfitto il proprio nemico. Perché questo «spirito» è qualcosa di cui è particolarmente fiero. Qui non si tratta del grande, possente spirito che il missionario chiama «Dio», di cui tutti non siamo che miserevoli riflessi, ma del piccolo spirito, quello che appartiene all'uomo e fa i suoi pensieri.

Se io da qui vedo l'albero di mango dietro la chiesa della missione, ciò non è spirito, perché io vedo soltanto. Ma se riconosco che è più grande della chiesa della missione, allora ciò è spirito. Devo cioè non soltanto vedere qualcosa, ma anche sapere qualcosa. Questo sapere il Papalagi lo usa dall'alba al tramonto. Il suo spirito è sempre come una canna da sparo piena di polvere o come un amo gettato. Per questo egli ha compassione di noi, popoli delle molte isole, perché non usiamo alcun sapere. Dice che noi siamo poveri di spirito e stupidi come l'animale della giungla.
Questo è certo vero, che noi usiamo poco ciò che il Papalagi chiama «pensare». Ma ci si può domandare chi è lo stupido, se colui che non pensa molto o colui che pensa troppo. Il Papalagi pensa continuamente: «La mia capanna è più piccola della palma. La palma si piega nella tempesta. La tempesta parla con una gran voce». Queste cose lui pensa; alla sua maniera, naturalmente. Ma pensa anche su se stesso: «Io sono piccolo di statura. Il mio cuore è sempre lieto alla vista di una fanciulla. Mi piace molto fare un viaggio, e così via. Ciò è bello e buono e può anche essere utile per colui che ama questo gioco nella sua testa. Ma il Papalagi pensa tanto, che il pensare è diventato per lui abitudine, necessità, costrizione addirittura. Lui deve sempre pensare. Ben difficilmente riesce a non pensare e a vivere invece con tutte le sue membra. Lui vive soltanto con la testa, mentre tutti gli altri suoi sensi giacciono nel sonno profondo. Sebbene egli intanto cammini diritto, parli, mangi e rida. Il pensare, i pensieri (questi sono il frutto del pensare) lo tengono prigioniero. Si inebria dei suoi stessi pensieri. Quando splende il sole, lui subito pensa: «Come splende magnificamente il sole in questo momento». E continua a pensare: «Come splende». Questo è sbagliato. Assolutamente sbagliato. Stolto. Perché quando il sole splende è assai meglio non pensare affatto. Un saggio samoano distende le sue membra nella calda luce e non pensa a niente. Accoglie il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, con i piedi, i fianchi, il ventre, con tutte le membra. Lascia che la pelle e le membra gioiscano e si rallegrino per conto loro e pensino per lui. Ed esse certamente pensano, anche se in maniera diversa dalla testa. Ma il Papalagi ne è in molte maniere impedito; il molto pensare gli sta davanti come un gran blocco di lava ch'egli non può togliere di mezzo. Ha, certo, pensieri allegri, ma non ride; ha pensieri tristi, ma non piange. Ha fame, ma non va a prendersi del taro e del palusami (piatto tipico samoano, n.d.r.). Il più delle volte è un uomo i cui sensi vivono in lotta con lo spirito: un uomo diviso in due parti.
La vita del Papalagi assomiglia molto spesso a quella di un uomo che deve andare con la barca a Savaii e che, non appena lasciata la riva, pensa: «Quanto tempo potrò impiegare per arrivare a Savaii?» Pensa, e intanto non vede il bel paesaggio che attraversa nel corso del suo viaggio. Ora gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna. Non appena il suo occhio l'ha afferrata, non può più lasciarla: «Che cosa ci può essere dietro quella montagna? Ci sarà una baia profonda oppure piccola?» E per il molto pensare dimentica di cantare le belle canzoni dei giovani navigatori, e neppure ode le parole scherzose delle fanciulle. Appena la baia e la montagna sono alle sue spalle, subito lo tormenta un nuovo pensiero: se prima di sera non verrà una tempesta. Sicuro: se verrà la tempesta. E cerca nel cielo limpido le nuvole nere. Continua a pensare alla tempesta che potrebbe venire. La tempesta non viene e lui giunge a Savaii la sera stessa senza danno. Ma per lui è come se non avesse neppure fatto il viaggio, perché i suoi pensieri per tutto il tempo sono stati lontani dal corpo e fuori dell'imbarcazione.
Ma uno spirito che ci tormenta in tal modo è un demonio e io non capisco perché molti lo debbano amare. Il Papalagi ama e venera il suo spirito e lo nutre con i pensieri della sua testa. Non lo lascia mai languire, ma gli è anche di poco incomodo quando i pensieri si divorano a vicenda. Fa molto rumore con i suoi pensieri e lascia che diventino chiassosi come bambini maleducati. Si comporta come se i suoi pensieri fossero splendidi come fiori, come montagne o foreste. Di essi parla come se al confronto un uomo valoroso o una fanciulla di animo lieto non avessero alcun valore. Fa esattamente come se ci fosse un comandamento che ordina all'uomo di pensare molto. Sicuro, come se questo comandamento venisse da Dio. Quando le palme e le montagne pensano, non fanno certo tanto baccano. E, sicuramente, se le palme pensassero con tanto rumore come fa il Papalagi, non avrebbero foglie così verdi e belle e non darebbero frutti così dorati. I frutti cadrebbero prima di essere maturi. Ma è molto più probabile che esse pensino assai poco.
Oltre a ciò ci sono moltissime maniere di pensare e innumerevoli bersagli per la freccia dello spirito. Triste è la sorte di colui che va molto lontano con il pensiero. «Che accadrà quando verrà la prossima aurora? Che cosa vorrà da me il Grande Spirito quando io arriverò nell'oltretomba? Dov'ero prima che i messaggeri delle divinità mi facessero dono dell'anima?» Questo pensare è tanto inutile quanto voler vedere il sole con gli occhi chiusi. Non si può. Perciò non è neppure possibile pensare fino in fondo l'inizio e la fine delle cose. Se ne avvedono coloro che ci si provano. Dai loro giovani anni fino alla maturità restano fermi su un punto, come il martin pescatore. Non vedono più il sole, il vasto mare, le dolci fanciulle; non provano più alcuna gioia, niente di niente. Persino la kava non piace più loro e durante le danze sulla piazza del villaggio tengono gli occhi abbassati e guardano a terra. Non vivono, anche se non sono morti. Sono stati colpiti dalla grave malattia del pensare.
Questo pensare dovrebbe rendere grande e nobile la mente. Se uno pensa molto e in fretta, in Europa si dice che è una grande testa. Invece di provare compassione per queste grandi teste, esse sono oggetto di particolare ammirazione. I villaggi eleggono questi uomini loro capi e, là dove arriva, una grande testa deve pensare in pubblico, davanti alla gente, così che tutti ne hanno gran piacere e l'ammirano. Quando muore una grande testa, tutto il paese è in lutto e grandi sono il dolore e le lamentazioni per ciò che si è perduto. Si fa un'immagine di pietra della grande testa del defunto e la si mette davanti agli occhi di tutti, sulla piazza del paese. Queste teste di pietra sono molto più grandi di com'erano quelle vive, affinché tutti le possano bene ammirare e ricordarsi con umiltà di quanto sono piccole le loro.
Quando si domanda a un Papalagi: «Perché pensi tanto?» Lui risponde: «Perché non voglio restare stupido».
Io credo però che questo sia soltanto un pretesto e che il Papalagi segua un cattivo impulso; che il vero scopo del suo pensare sia di arrivare a capire ciò che sta dietro le forze del Grande Spirito. Un fare che egli stesso definisce con l'altisonante parola «conoscenza». Conoscenza vuol dire avere una cosa così vicina agli occhi che ci si batte il naso. Questo battere il naso nelle cose e frugarci dentro è una brutta e deprecabile voglia del Papalagi. Afferra la scolopendra, la trafigge con una minutissima lancia, le stacca una zampa: «Che aspetto ha una zampa staccata in quel modo dal corpo? Come era attaccata?» Taglia la zampa, la apre per misurarne la grandezza. Questo è importante, è essenziale. Stacca una scheggia dalla zampa, piccola quanto un granello di sabbia, e la mette sotto un lungo tubo che ha una forza segreta e rende gli occhi tanto più acuti. Con questo occhio magico il Papalagi studia e controlla ogni cosa, le tue lacrime, un pezzetto della tua pelle, un capello, tutto. Spezzetta tutte le cose fino a quando arriva al punto in cui non c'è più nulla da tagliare e da dividere. Sebbene questo punto sia il più piccolo, di solito è più importante, perché è un accesso alla grande conoscenza che soltanto il Grande Spirito possiede.
Questo accesso non è aperto al Papalagi e anche i suoi occhi magici più acuti non hanno ancora potuto guardarvi dentro. Nessuno è mai salito più alto di quanto lo fosse il tronco della palma che le sue gambe stringevano. Giunto sulla cima della pianta, gli veniva a mancare il tronco per salire più su. Il Grande Spirito non ama la curiosità degli uomini, per questo ha teso sopra tutte le cose grandi liane che sono senza principio e senza fine. Perciò chiunque indaghi con attenzione su tutto il pensare dovrà alla fine avvedersi che rimane sempre stupido e che deve lasciare al Grande Spirito tutte le risposte che lui stesso non può dare. Questo, d'altronde, i Papalagi più coraggiosi e più intelligenti lo ammettono. Tuttavia, molti di quei malati del pensiero non sanno rinunciare a tale piacere; e per questo il pensare degli uomini conduce allo smarrimento per tante e diverse vie, esattamente come se camminassero in una giungla dove non c'è ancora alcun sentiero. Nel pensare consumano a tal punto i loro sensi che poi, come in effetti è già accaduto, improvvisamente non sanno più distinguere tra uomo e animale. Affermano che l'uomo è un animale e che l'animale è umano.
Deprecabile e fatale è perciò che tutti i pensieri, non importa se buoni o cattivi, vengano subito buttati sulle bianche stuoie sottili «Vengono stampati», dice il Papalagi. Che vuol dire che ciò che quei malati pensano viene poi scritto con una macchina molto misteriosa, che ha mille mani e la fortissima volontà di molti grandi capi. Ma non solo una o due volte, bensì tantissime volte, infinite volte essa riscrive sempre gli stessi pensieri. Molte stuoie di pensieri vengono poi legate in fasci e schiacciate insieme (libri, li chiama il Papalagi) e inviate in tutte le parti del grande paese. Così ben presto tutti coloro che prendono dentro di sé questi pensieri ne vengono contagiati. E divorano queste stuoie di pensieri come dolci banane, esse si trovano in ogni capanna, se ne colmano interi cassoni, e giovani e vecchi vi rosicchiano intorno come i topi rosicchiano la canna da zucchero. Perciò sono così pochi coloro che ancora possono pensare ragionevolmente, con pensieri naturali, come li ha qualsiasi onesto samoano.
Allo stesso modo anche ai bambini vengono messi in testa tanti pensieri finché ce ne stanno. Ogni giorno sono obbligati a ingoiare una certa quantità di stuoie di pensieri. Solo i più sani respingono questi pensieri o li lasciano cadere dal loro spirito come attraverso una rete. La maggior parte invece se ne riempie la testa a tal punto che poi non vi resta più spazio e non vi entra più alcuna luce. Questo lo si chiama «educare lo spirito» e lo stato permanente di questo smarrimento si chiama «cultura», cosa generalmente diffusa.
Cultura vuol dire colmare le proprie teste fino all'orlo estremo con le conoscenze. L'uomo colto conosce la lunghezza della palma, il peso della noce di cocco, i nomi di tutti i grandi capi e l'epoca delle loro guerre. Conosce la grandezza della luna, delle stelle e di tutte le terre. Conosce per nome ogni fiume, ogni animale, ogni pianta. Sa tutto. Fai una domanda a un uomo colto e lui ti spara addosso la risposta prima ancora che tu abbia finito di chiudere la bocca. La sua testa è sempre carica di munizioni, è sempre pronta a sparare. Ogni europeo consuma gli anni più belli della sua vita per rendere la sua testa simile alla più rapida canna da sparo. Chi vuole sottrarsi a questo, vi viene costretto. Ogni Papalagi deve sapere, deve pensare.
L'unica cosa che potrebbe ancora guarire tutti questi malati di pensiero, l'oblio, il cacciar via i pensieri, è un'arte che non viene praticata. Sono quindi pochissimi quelli che lo sanno fare. La maggior parte porta dentro la testa un tale peso che il corpo è stanco e perde energie e appassisce prima del tempo.
Dobbiamo noi dunque, cari non pensanti fratelli, dopo tutto quello che vi ho in verità raccontato, veramente imitare il Papalagi e imparare tutti quei pensieri come lui? Io dico: «No!» Perché noi non dobbiamo fare nulla che non sia ciò che ci rende più forti nel corpo e più lieti e migliori nell'animo. Dobbiamo guardarci da tutto ciò che ci potrebbe derubare della nostra gioia di vivere, soprattutto da ciò che può oscurare il nostro spirito e togliergli la sua chiara luce, ciò che mette la nostra testa in lotta con il nostro corpo. Il Papalagi ci dimostra col suo fare che il pensare è una grave malattia che riduce di molto il valore di un uomo, lo rende più piccolo

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