Cosa posso volere, se questo non viene dalla mia memoria? Quando vediamo questo, vale a dire l’inanità completa del voler intraprendere un nuovo passo, una nuova pratica compreso il fatto di non intraprendere alcuna pratica, che è ugualmente nullo, qualcosa si riduce, si scioglie. Le pratiche non sono in causa, ma piuttosto il modo automatico in cui funzionano. Il cervello è fatto così. Non si tratta d’altra parte di errore, vi è una bellezza immensa. “L’universo si rivela ricoprendosi”: diceva Eraclito molto tempo fa. Ci viene una nuova schiarita nel momento in cui ci rendiamo conto che ogni pratica e tecnica sono generalmente delle tattiche per arrivare a non sentire più ciò che è. In quanto cosa sentiamo? La miseria, il malessere. E vogliamo ritirare questo. Perché? Perché in tutta evidenza non siamo questo.
E’ la gioia che è il criterio universale di tutto ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. E’ in riferimento a questa gioia indelebile in noi che vediamo che non viviamo questo. Vogliamo fare allora qualcosa.
Ma più ci inseriamo in una tattica per non sentire più, più ci allontaniamo da ciò che cerchiamo. La sola conclusione possibile è giustamente sentire e fermarsi di non voler più sentire. E’ il senso stesso del passo tradizionale, se possiamo utilizzare questa parola, che si orienta verso la pura considerazione.
Jean Klein ha avuto uno shock, diciamo, nel momento in cui ha realizzato che non vi è nulla da fare. E’ uno shock estremamente difficile da accettare per il cervello, in quanto esso è sempre in uno stato di voler fare qualcosa. Non possiamo uscire deliberatamente da questo funzionamento. La constatazione che consiste nel vedere che funzioniamo in modo automatico non viene da una pratica. Viene “così”… da se stesso.
E’ la vita che ci obnubila, ed è la vita che ci illumina. E’ la stessa vita che ci fa riscoprire la realtà della vita, e che ce la fa ri-scoprire. E tra le due, ci inquietiamo, ci attiviamo e ci agitiamo sempre in nome di ciò che non siamo.
Prima ancora che la domanda “che fare” sia posta, ciò che c’era da fare è stato fatto, e non è stato fatto da qualcuno. Certamente, ameremmo che questa chiarezza possa estendersi a tutti gli elementi della vita che non partecipano a quest’illuminazione. Ancora una volta, sono tentato di dire che non vi è niente da fare, ma questa risposta non è soddisfacente. Allora diciamo: “guardate”. E’ questo che c’è da fare: guardare. Considerare ogni limitazione. C’è questo confronto tra ciò che siamo profondamente, che non possiamo negare, e ciò che crediamo di sapere della vita, che non vogliamo lasciare. L’incontro dei due è tollerabile per il cervello. Siamo illimitati. Anche tutto ciò che è limitato nel tempo ci rivolta. La paura della morte, per esempio, è una rivolta: “No, non è possibile!”. Da lì viene ogni ricerca della libertà. Ma cerchiamo in modo maldestro, con delle azioni, con un’ideologia, nelle religioni, nella politica. L’altro giorno, mi sono imbattuto su quest’affermazione di Giordano Bruno [1] che riassume questo meravigliosamente: “Verrà un giorno in cui l’uomo si risveglierà dall’oblio e capirà finalmente e veramente a chi ha ceduto le redini della sua esistenza: ad un mentale fallace, bugiardo, che lo rende e lo mantiene schiavo… L’uomo non ha dei limiti e quando, un giorno, se ne renderà conto sarà libero anche in questo mondo.”
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