Introduzione
Ecco svelati i segreti della salute, della serenità, della longevità, attraverso le testimonianze di vita degli ultracentenari di Vilcabamba.
E’ un segreto svelato, ma forse ancora non comprensibile a tutti. Consiglio un piccolo sforzo di umiltà e di consapevolezza per comprendere che culture solo apparentemente meno progredite delle nostre, sono in realtà “rimaste” molto più avanti della nostra civiltà indottrinata, formata da gente plagiata e parassitata dall’ideologia del possesso e del dominio.
Questo su Vilcabamba è un articolo che intendevo postare da anni per i cari lettori e amici di Stampa Llibera; per spiegare a tutti i motivi per cui una persona vive bene o male, o vive 120 anni in salute e muore sana e serenamente.
Lo posto ora incompleto, non me ne vogliate.
In questo tempo gli eventi si susseguono tumultuosi e il sentimento comune delle persone consapevoli è d’incertezza e di paura. Sono emozioni negative che fanno soffrire gli individui e li blocca rendendoli incapaci di agire. Non potendo contare su di un futuro certo, le persone si sentono vulnerabili ed hanno paura di perdere quanto possiedono, (anche se sarebbe meglio aver paura di perdere quello che si è). Molti poi collegano il mancato e sempre più incerto possesso di denaro e la ridotta disponibilità dello stesso, alla scarsa qualità della vita, cosa questa comprensibile solo in piccola parte.
A conferma di questa asserzione posto questo articolo inchiesta che svelerà a chi avrà la costanza di arrivare fino in fondo un sacco di concetti “segreti” talmente importanti da potersi a ragione definire basilari e rivoluzionari, per la nostra vita.
Ci permetteremo qui di andare oltre i limiti del pur ottimo giornalista che ha confezionato il tutto e che però non ha dato risposte. Proviamo a darle noi partendo da posizioni inconsuete…
Volevo inoltre fare un’ultima considerazione che mi è cara nella certezza di aiutare molti lettori amici prima di farvi leggere questo ultimo pezzo: tenete presente che ciò che induce la malattia vera, non i sintomi, è sempre la percezione-convinzione di non aver più una via d’uscita.
Il grande medico – scieziato tedesco R.G.Hamer ha rivelato che le cosidette malattie (sono erroneamente evidenziate come tali quando il nostro corpo sta riparando, sta rinascendo, si sta riadattando per funzionare meglio) sono conseguenti, a traumi e conflitti vissuti in solitudine (a cui aggiungo le argomentazioni di Laborit) a cui non si trova una via di uscita. Henri Laborit altro grande studioso, con le sue ricerche ha scoperto compiendo esperimenti su poveri ratti che la morte arrivava solo quando i topi da lui usati per gli esperimenti non avevano più la possibilità di attaccare nè di scappare.
Questa è la vera causa di tanti drammi odierni (Oltre alla sottrazione pianificata del contante per portare miseria e disperazione e quindi per farci ricadere nello schema su descritto.).
E’ questo che non si vuole che la gente sappia, capite? Ci vogliono rassegnati e impauriti, ci vogliono prede senza alcuna speranza.
Invece noi sappiamo con assoluta certezza che non ci si ammala e muore per la lotta, ma per la sottomissione senza via di uscita, per una impossibilità di reagire. Dobbiamo però sempre tenere aperta una via di scampo come Laborit stesso consiglia nel titolo del suo libro “Elogio della fuga” .
Per quanto riguarda le cure e gli ospedali, la prevenzione, le vaccinazioni, gli screening, io posso dire, (finchè c’è un velo di libertà di pensiero), che ritengo siano un modo che ha Big Pharma e le alleate strutture sanitarie, (medici acritici compresi) hanno, per procurarsi clienti, per sottrarre alle famiglie i risparmi di una vita da destinarsi a “cure” che uccidono. Credo fermamente che le medicine siano solo un modo di cronicizzare malattie e rendere dipendenti i malati. Insomma se non ci sono medici e farmacisti non ci sono malati cari amici ed è questo che spiega l’articolo che state per leggere, sempre che le tenie nascoste, presenti nel sito accettino di non boicottarlo e mi permettano di postarlo integralmente.
Per chi volesse approfondire e conoscere come fanno gli sciamani a guarire le persone, consiglio di leggere il libretto “La sposa degli Dei” http://www.ilgiardinodeilibri.it/libri/__sposa_degli_dei.ph
Qui il lettore scoprirà anche che quelle di R. G. Hamer* sono state delle riscoperte e che tutti i popoli antichi del pianeta, tutte le antiche culture, conoscevano il modo per vivere a lungo in pace e sani fino alla fine loro giorni. Ovviamente questo è di ostacolo a coloro che vogliono diventare esclusivisti della vita e condannano per questioni razziali e di dominio il resto dell’umanità ad una vita grama ed alla morte anticipata. Ecco il motivo per cui i popoli liberi, che hanno culture antiche, sono massacrati in tutto il mondo. Devono far morire la testimonianza e la speranza.
Nelle sue ricerche il bravo Bruce Lypton biologo cellulare e ricercatore di fisica quantistica, ha scoperto anche lui cose che gli sciamani e stregoni conoscevano da tempo e cioè che quando due persone stanno insieme, stanno bene, si amano, si ha un resettamento delle influenze negative che subiamo e che sono dovute a comportamenti errati appresi, ereditati. Lui la chiama effetto luna di miele. Si ha in questo caso una crescita veloce, straordinaria di cellule, quelle cellule che durante il conflitto, quando il corpo è sotto attacco, non sono rimpiazzate dal nostro organismo che è costretto a portare il sangue agli arti per attaccare o fuggire, spostando così le cellule destinate alla costruzione, al mantenimento ed alla difesa. Ecco perchè si blocca lo stomaco ad esempio. Poi passato un periodo di difficoltà di disistima, di perdita di massa ossea dovuta a inattività, quando le persone trovano una soluzione e sono felici, stranamente si mette in moto una velocissima crescita cellulare. Ebbene questa rinascita ha per la medicina ufficiale un nome diverso, un nome che è spesso una condanna a morte. Si dice che siamo in presenza
di una leucemia.
Insomma l’uomo è un animale sociale, sta bene con i suoi simili, li ama e vorrebbe essere amato. Il vecchio vuole passare la sua infanzia con i nipoti che lo schiodino dalla sedia, vuole la gentilezza come abbiamo sentito dire da una grande giornalista qual’è Antonella Randazzo, proprio pochi articoli fa qui su Stampalibera. (E quì provo un grande dispiacere nel non poter offrire ai lettori altri articoli simili).
E’ l’esatto opposto di quanto ci viene suggerito dai media oggi. Giornali e televisioni incitano a maggior competitività cioè conflittualità, ti spronano a primeggiare su quanti restando secondi o inferiori si sentiranno in perenne conflitto e senza via di fuga. Quando le persone diventano conflittuate, sotto attacco, trattengono i liquidi essendo in modalità attacco o fuga e diventano obese. A Vilcabamba come nelle popolazioni di uomini liberi non ci sono obesi. C’entra poco o nulla l’alimentazione.
Qui ci sta bene una nota sui condizionamenti pesantissimi che subiscono i giovani in una scuola che li vuole perfetti idioti, benchè nozionisticamente dotati, ma senza alcun spirito critico e senza una loro personale via di scampo. Se invece si vuole veramente bene ai bambini e si incoraggiano le loro inclinazioni, si riesce ad ottenere da loro quello che la stupidità dell’Occidente schiavo dell’ideologia nefasta del possesso, della sopraffazione e del dominio non riesce nemmeno ad immaginare.
Adesso avete capito perché vogliono distruggere questa antiche civiltà e tante altre. Vogliono impedire l’evoluzione umana conseguente alla vera libertà ed ad una condizione di vero affetto, rispetto e solidarietà fra individui. In Corea del Nord la spesa per la sanità è del 3% e la gente vive meglio e più a lungo che in Veneto dove la spesa per la sanità supera il 60% del budget di spesa della Regione. Il budget nazionale mi sembra superi il 30%. Mi correggano i lettori più informati.
Ultima considerazione teosofica da parte di un agnostico. Non è che per caso “quando uno o più persone sono unite in mio nome io sono li fra loro” significa che la vita, la crescita, la felicità, la riproduzione della specie, la sopravvivenza finale nell’etere, esistono solo se c’è amore fra le persone e se sono alimentate da intenzioni e atti socializzanti atti a far crescere le cellule, la vita tout court quindi? Non è questo forse il significato della parola Dio? Quel Dio che la gente distratta, disinformata, plagiata, indottrinata, imbrogliata, depistata, cerca dove non c’è e non si può vedere? Quel Dio che solo il cuore ti puo far da Pollicino…? Quel Dio che ti chiede di rimuovere subito i conflitti e a perdonare addirittura i nemici?
Avanti allora, adesso le cose le sapete.
Lino Bottaro
* R. G.Hamer ha codificato nella sua Nuova Medicina Germanica le leggi biologiche sempre esistite e da lui riscoperte.
Vilcabamba – Ecco i segreti per vivere molto a lungo e bene!
Ho messo in grassetto i passaggi chiave da mettere insieme per la comprensione dei motivi per cui gli abitanti di Vilcabamba, (come ogni uomo sul pianeta) vivrebbero sereni ed a lungo. Ho inserito con il mio articolo introduttivo ulteriori elementi di comprensione, come viene suggerito dall’autore dell’inchiesta che alla fine dice riferendosi ai discorsi degli abitanti di Vilcabamba “Per fare in modo che le loro parole acquistino un significato particolare, bisogna fare molta attenzione a quello che dicono e avere già un’idea sull’argomento.” Bene, adesso l’idea ce l’avete.
Fonte: l’ Internazionale
Gli abitanti di Vilcabamba sono poveri, lavorano sodo per tutta la vita e consumano alcol e droghe. Nonostante questo, vivono più a lungo di chiunque altro al mondo. Qual è il loro segreto?
C’è qualcosa di strano a Vilcabamba. Qualcosa che permette ai suoi abitanti di vivere fino a centodieci, centoventi o perfino centoquarant’anni.
Non solo vivono a lungo: riescono anche a mantenere una salute invidiabile. Il tutto senza prestare la minima attenzione ai consigli dei dottori. Gli abitanti di questo piccolo e sperduto paesino nel sud dell’Ecuador amano gli eccessi: fumano come ciminiere e bevono come cosacchi. Eppure, all’età in cui ognuno di noi mostra segni di decadimento, loro si preparano a vivere altri quarant’anni.
Come fanno?
Secondo i censimenti internazionali, le aspettative di vita più alte si registrano in luoghi ricchi e tranquilli, come il principato di Andorra, in Europa, o l’isola di Okinawa, in Giappone.
Come fanno?
Secondo i censimenti internazionali, le aspettative di vita più alte si registrano in luoghi ricchi e tranquilli, come il principato di Andorra, in Europa, o l’isola di Okinawa, in Giappone.
A Vilcabamba, invece, gli abitanti sono poveri, vivono in cattive condizioni sanitarie e lavorano sodo per tutta la vita. Ma nonostante questo, qui ci sono dieci volte più centenari che in qualsiasi altro posto del mondo. È il mistero della valle.
Faccio un salto a Vilcabamba ogni volta che la salute di mio padre mi permette di allontanarmi da Buenos Aires. Entro nella stanza dell’ospedale in cui è ricoverato. Vedo i suoi piedi coperti da un lenzuolo e la donna che si prende cura di lui seduta su una poltrona.
“Hai visto, sono venuti a trovarti”.
Da quando mio padre è stato ricoverato, meno di una settimana fa, lo vengo a trovare due volte al giorno. Non ho mai visto questa donna prima d’ora. Dopo aver passato la notte con lui, cambiandolo di posizione, dandogli da mangiare e chiamando il medico, sembra avere più familiarità con mio padre di quanta ne abbia io.
Mi avvicino per salutarlo. Cerco di dargli un bacio sulla fronte, ma devo sporgermi sopra la sponda metallica del suo letto ortopedico. Quando mi avvicino vedo che sotto le lenzuola è legato.
Due zone del suo cervello e tre del suo cuore non funzionano più. A ottantasei anni, ha già avuto molti infarti. Ha perso la vista da un occhio ed è stato necessario asportargli le paratiroidi. Soffre di ipertensione e di diabete ed è in dialisi: dopo anni di segnali inascoltati, i suoi reni a un certo punto hanno detto basta.
Ha avuto quattro emorragie gastrointestinali.
È stato operato alla prostata e soffre di un’aritmia cardiaca che risponde bene alle terapie. Non cammina più.
Credo che all’inizio sia stato per scelta.
Poi gli si sono atroizzate le gambe. Ha anche un piede diabetico. È il destro, dove ha una piccola ferita che non si rimargina mai. Sul sinistro, invece, ha un dito in meno.
Come faranno i figli degli anziani di Vilcabamba? Se possono vivere più di centovent’anni, signiica che hanno figli novantenni. Mio padre, quindi, nello stato di salute in cui si trova, dovrebbe prendersi cura di mio nonno, che ovviamente sarebbe ancora vivo. Sarebbe un disastro. Credo che una volta superati i novant’anni sia poco decoroso non essere orfano.
Faccio un salto a Vilcabamba ogni volta che la salute di mio padre mi permette di allontanarmi da Buenos Aires. Entro nella stanza dell’ospedale in cui è ricoverato. Vedo i suoi piedi coperti da un lenzuolo e la donna che si prende cura di lui seduta su una poltrona.
“Hai visto, sono venuti a trovarti”.
Da quando mio padre è stato ricoverato, meno di una settimana fa, lo vengo a trovare due volte al giorno. Non ho mai visto questa donna prima d’ora. Dopo aver passato la notte con lui, cambiandolo di posizione, dandogli da mangiare e chiamando il medico, sembra avere più familiarità con mio padre di quanta ne abbia io.
Mi avvicino per salutarlo. Cerco di dargli un bacio sulla fronte, ma devo sporgermi sopra la sponda metallica del suo letto ortopedico. Quando mi avvicino vedo che sotto le lenzuola è legato.
Due zone del suo cervello e tre del suo cuore non funzionano più. A ottantasei anni, ha già avuto molti infarti. Ha perso la vista da un occhio ed è stato necessario asportargli le paratiroidi. Soffre di ipertensione e di diabete ed è in dialisi: dopo anni di segnali inascoltati, i suoi reni a un certo punto hanno detto basta.
Ha avuto quattro emorragie gastrointestinali.
È stato operato alla prostata e soffre di un’aritmia cardiaca che risponde bene alle terapie. Non cammina più.
Credo che all’inizio sia stato per scelta.
Poi gli si sono atroizzate le gambe. Ha anche un piede diabetico. È il destro, dove ha una piccola ferita che non si rimargina mai. Sul sinistro, invece, ha un dito in meno.
Come faranno i figli degli anziani di Vilcabamba? Se possono vivere più di centovent’anni, signiica che hanno figli novantenni. Mio padre, quindi, nello stato di salute in cui si trova, dovrebbe prendersi cura di mio nonno, che ovviamente sarebbe ancora vivo. Sarebbe un disastro. Credo che una volta superati i novant’anni sia poco decoroso non essere orfano.
Benvenuti nella valle
Mi metto in viaggio: Buenos Aires, Quito, Loja, Vilcabamba. All’ingresso del paese ci sono due cartelli. Uno dà il benvenuto al turista appena arrivato, l’altro lo informa che il paese si trova a 1.500 metri sul livello del mare, ha 4.200 abitanti e una temperatura media di venti gradi. Un po’ più avanti c’è un altro cartello più colorato e accattivante: “Welcome Vilcabamba”. Sopra c’è l’immagine di uno dei suoi abitanti. Un centenario, ovviamente. Un uomo dall’aspetto sereno, pronto per uscire a lavorare. A Vilcabamba gli anziani si dividono in due grandi gruppi: i longevi, che superano i novant’anni, e i centenari. Vado a trovare uno dei centenari che vivono nella zona alta del paese. L’autista si chiama Lenin. “Come mai ti chiami Lenin? Tuo padre era comunista?”. “No, il nome l’ha scelto mio nonno, che ha vissuto ino a centoventisei anni”. Arriviamo in macchina a casa di José Medina, che ha centododici anni. “Non risponde nessuno”. “José è un po’ sordo, ma ha una sorella che ci sente bene”. “Quanti anni ha la sorella?”.
“Centoquattro”. Visto che nessuno risponde immaginiamo che la donna sia uscita a fare la
spesa. Oltrepassiamo il cancello ed entriamo nella proprietà. La casa è umile, di campagna. In fondo c’è un terreno su cui i Medina coltivano parte di quello che mangiano: lattuga, mais e fagioli. Non c’è anima viva. Lenin si allontana dietro una collina e dopo un po’ mi fa segno di raggiungerlo.
José Medina sta zappando la terra. Ci guarda un secondo, poi abbassa la testa e continua. La nostra presenza non è un buon motivo per interrompere il lavoro. Víctor Carpio, la guida, mi dice di osservare bene quello che fa Medina. Separa il raccolto dalle erbacce. È un lavoro per cui c’è bisogno di precisione e di un’ottima vista. Ma per il vecchio questo non è un problema: non ha neanche bisogno degli occhiali. Usa gli stessi vestiti della maggior parte dei contadini di Vilcabamba: dei comunissimi pantaloni e una camicia bianca. Mentre io, che sono di passaggio, indosso un paio di pantaloni impermeabili e una camicia casual in tessuto traspirante.
Gli chiedo se può sedersi per fare due chiacchiere con me. Si ferma, appoggiando tutto il peso del corpo sul manico
della zappa. Due settimane fa la guida gli ha portato un gruppo di canadesi che volevano conoscerlo, mentre il mese
scorso sono venuti a intervistarlo per una tv di Hong Kong.
“Ecco, non mi risponde perché sarà stanco di essere disturbato. Anche se parlo spagnolo, per lui rimango uno straniero”. “Non ti risponde perché non ti sente. Prova a parlare più forte”. Medina decide di sedersi. Sotto il cappello si vedono i capelli ancora neri.
Gli arrivano f ino a metà della fronte. La guida gli fa una domanda da vecchi. Non gli chiede “come va?”, ma “come si sente?”. “Bene, ma quando fumo mi gira un po’ la testa”. “Ma come, fuma?”, chiedo alla guida. Víctor mi spiega che fuma il chamico, un’erba che gli sciamani hanno cominciato a usare nell’antichità. Ora è diventata un’abitudine per la
gente del posto. All’inizio i suoi effetti sono simili a quelli della marijuana, ma dopo alcune boccate somigliano di più a quelli della cocaina. Provoca allucinazioni, percezioni illusorie, perdita di memoria, sovreccitazione e rabbia. Alcuni le attribuiscono anche proprietà afrodisiache. Ma il chamico, in realtà, è una pianta estremamente tossica. José Medina, il primo centenario che incontro nella valle, di fatto si droga. E c’è di più: alcuni direbbero
che si è drogato per tutta la vita. Oltre al chamico, infatti, gli piacciono le sigarette, quelle fatte di normale tabacco.
Ultimamente ha dei giramenti di testa, ma non sta abbastanza male da rinunciare al suo vizio.
“Quando ero più giovane, a settant’anni, fumavo molto di più”. “Le piace bere?”. “Non più. Ho smesso quando avevo
centosei anni. Ogni tanto mi torna la voglia e mi bevo un puro. Ma non più di uno al giorno”.
Il puro è un alcolico simile al rum. È quello che rimane nella punta dell’alambicco.
Si prepara con gli scarti della canna da zucchero ed è una bevanda molto forte. Ha un’alta gradazione alcolica ed è
spietata con il fegato di chi la beve.
“Centoquattro”. Visto che nessuno risponde immaginiamo che la donna sia uscita a fare la
spesa. Oltrepassiamo il cancello ed entriamo nella proprietà. La casa è umile, di campagna. In fondo c’è un terreno su cui i Medina coltivano parte di quello che mangiano: lattuga, mais e fagioli. Non c’è anima viva. Lenin si allontana dietro una collina e dopo un po’ mi fa segno di raggiungerlo.
José Medina sta zappando la terra. Ci guarda un secondo, poi abbassa la testa e continua. La nostra presenza non è un buon motivo per interrompere il lavoro. Víctor Carpio, la guida, mi dice di osservare bene quello che fa Medina. Separa il raccolto dalle erbacce. È un lavoro per cui c’è bisogno di precisione e di un’ottima vista. Ma per il vecchio questo non è un problema: non ha neanche bisogno degli occhiali. Usa gli stessi vestiti della maggior parte dei contadini di Vilcabamba: dei comunissimi pantaloni e una camicia bianca. Mentre io, che sono di passaggio, indosso un paio di pantaloni impermeabili e una camicia casual in tessuto traspirante.
Gli chiedo se può sedersi per fare due chiacchiere con me. Si ferma, appoggiando tutto il peso del corpo sul manico
della zappa. Due settimane fa la guida gli ha portato un gruppo di canadesi che volevano conoscerlo, mentre il mese
scorso sono venuti a intervistarlo per una tv di Hong Kong.
“Ecco, non mi risponde perché sarà stanco di essere disturbato. Anche se parlo spagnolo, per lui rimango uno straniero”. “Non ti risponde perché non ti sente. Prova a parlare più forte”. Medina decide di sedersi. Sotto il cappello si vedono i capelli ancora neri.
Gli arrivano f ino a metà della fronte. La guida gli fa una domanda da vecchi. Non gli chiede “come va?”, ma “come si sente?”. “Bene, ma quando fumo mi gira un po’ la testa”. “Ma come, fuma?”, chiedo alla guida. Víctor mi spiega che fuma il chamico, un’erba che gli sciamani hanno cominciato a usare nell’antichità. Ora è diventata un’abitudine per la
gente del posto. All’inizio i suoi effetti sono simili a quelli della marijuana, ma dopo alcune boccate somigliano di più a quelli della cocaina. Provoca allucinazioni, percezioni illusorie, perdita di memoria, sovreccitazione e rabbia. Alcuni le attribuiscono anche proprietà afrodisiache. Ma il chamico, in realtà, è una pianta estremamente tossica. José Medina, il primo centenario che incontro nella valle, di fatto si droga. E c’è di più: alcuni direbbero
che si è drogato per tutta la vita. Oltre al chamico, infatti, gli piacciono le sigarette, quelle fatte di normale tabacco.
Ultimamente ha dei giramenti di testa, ma non sta abbastanza male da rinunciare al suo vizio.
“Quando ero più giovane, a settant’anni, fumavo molto di più”. “Le piace bere?”. “Non più. Ho smesso quando avevo
centosei anni. Ogni tanto mi torna la voglia e mi bevo un puro. Ma non più di uno al giorno”.
Il puro è un alcolico simile al rum. È quello che rimane nella punta dell’alambicco.
Si prepara con gli scarti della canna da zucchero ed è una bevanda molto forte. Ha un’alta gradazione alcolica ed è
spietata con il fegato di chi la beve.
LA STRADA DELLA LONGEVITA’
Possibili spiegazioni della presenza di così tanti centenari a Vilcabamba: l’ambiente, l’alimentazione biologica, l’aria pura, l’acqua non inquinata. Nella valle la natura è riuscita a sbarazzarsi della mano nociva dell’uomo, della sua capacità distruttiva. Per questo ha premiato i suoi figli con una buona salute e un bonus di quarant’anni di vita. Una ricompensa per essersi comportati bene e per essersi mantenuti nei limiti della morale e delle buone abitudini. Ma i sostenitori del salutismo e delle buone abitudini sono in dificoltà quando si parla di Vilcabamba.
Gli abitanti della valle bevono, fumano e si drogano. Per gli amanti della virtù è insopportabile che la gente del posto sopravviva più a lungo e in condizioni migliori di chi non ha nessun vizio.
Gli sembra ingiusto. Com’è possibile? Perché la prevenzione ha un senso fuori dalla valle e non serve agli abitanti della zona? Dov’è la differenza? José Medina dev’essere il figlio viziato della natura, a cui tutto è permesso e a cui non si rimprovera mai niente. Ha centododici anni, i capelli neri e la vista acuta, ed è ancora in grado di lavorare. Però non ci sente benissimo. Ha pagato per i suoi “eccessi” e da vecchio è diventato un po’ sordo. Bisogna tenere conto di una cosa: la differenza tra longevità e aspettativa di vita. La longevità è come una strada lunga centovent’anni. È il massimo a cui possiamo aspirare se ci impegniamo a prevenire le malattie, se viviamo in un luogo incontaminato e se usciamo di casa solo per andare dal dottore. Sempre che, ovviamente, i nostri geni ci aiutino e non ci capiti nessun incidente.
O almeno, così pensava la scienza.
A una certa età le cellule, per quanto siano in buono stato e per quanto possiamo averle coccolate, dicono basta e si fermano. È la teoria scientiica che conferma una convinzione popolare: prima o poi tutti dobbiamo morire.
L’aspettativa di vita, invece, è il tratto di quella strada che ognuno di noi riesce a percorrere. A meno di vivere a Vilcabamba, la maggior parte della gente non arriva mai alla ine. La longevità sembra essere fissa, mentre l’aspettativa di vita dipende dalla nostra capacità di seguire i consigli dei medici. Se ci fermiamo davanti alle vetrine del grasso, del sale, dello stress e delle sostanze tossiche, l’aspettativa di vita diminuisce. Se invece ogni tanto ci facciamo visitare, se la strada rimane pulita e se poi abbiamo fortuna, probabilmente riusciremo ad andare avanti per un bel po’ di anni.
Abbiamo un’idea irremovibile sulla vecchiaia e sulla morte: sono inesorabili. Ma se la vecchiaia fosse considerata una malattia, di cui tutti ci ammaliamo prima o poi, dovuta alla cattiva qualità di certi meccanismi biologici, ci potrebbero essere dei rimedi. E potremmo cercare di studiarli.
Sicuramente il tempo, per l’organismo, scorre in modo particolare. L’età che ci viene indicata dal calendario non funziona esattamente allo stesso modo per tutti. Per questo due persone di cinquant’anni possono dimostrare età diverse.
C’è un tempo specifico per ogni organismo, un’età biologica che per il momento è impossibile misurare con la precisione di un orologio da polso.
Gli abitanti della valle bevono, fumano e si drogano. Per gli amanti della virtù è insopportabile che la gente del posto sopravviva più a lungo e in condizioni migliori di chi non ha nessun vizio.
Gli sembra ingiusto. Com’è possibile? Perché la prevenzione ha un senso fuori dalla valle e non serve agli abitanti della zona? Dov’è la differenza? José Medina dev’essere il figlio viziato della natura, a cui tutto è permesso e a cui non si rimprovera mai niente. Ha centododici anni, i capelli neri e la vista acuta, ed è ancora in grado di lavorare. Però non ci sente benissimo. Ha pagato per i suoi “eccessi” e da vecchio è diventato un po’ sordo. Bisogna tenere conto di una cosa: la differenza tra longevità e aspettativa di vita. La longevità è come una strada lunga centovent’anni. È il massimo a cui possiamo aspirare se ci impegniamo a prevenire le malattie, se viviamo in un luogo incontaminato e se usciamo di casa solo per andare dal dottore. Sempre che, ovviamente, i nostri geni ci aiutino e non ci capiti nessun incidente.
O almeno, così pensava la scienza.
A una certa età le cellule, per quanto siano in buono stato e per quanto possiamo averle coccolate, dicono basta e si fermano. È la teoria scientiica che conferma una convinzione popolare: prima o poi tutti dobbiamo morire.
L’aspettativa di vita, invece, è il tratto di quella strada che ognuno di noi riesce a percorrere. A meno di vivere a Vilcabamba, la maggior parte della gente non arriva mai alla ine. La longevità sembra essere fissa, mentre l’aspettativa di vita dipende dalla nostra capacità di seguire i consigli dei medici. Se ci fermiamo davanti alle vetrine del grasso, del sale, dello stress e delle sostanze tossiche, l’aspettativa di vita diminuisce. Se invece ogni tanto ci facciamo visitare, se la strada rimane pulita e se poi abbiamo fortuna, probabilmente riusciremo ad andare avanti per un bel po’ di anni.
Abbiamo un’idea irremovibile sulla vecchiaia e sulla morte: sono inesorabili. Ma se la vecchiaia fosse considerata una malattia, di cui tutti ci ammaliamo prima o poi, dovuta alla cattiva qualità di certi meccanismi biologici, ci potrebbero essere dei rimedi. E potremmo cercare di studiarli.
Sicuramente il tempo, per l’organismo, scorre in modo particolare. L’età che ci viene indicata dal calendario non funziona esattamente allo stesso modo per tutti. Per questo due persone di cinquant’anni possono dimostrare età diverse.
C’è un tempo specifico per ogni organismo, un’età biologica che per il momento è impossibile misurare con la precisione di un orologio da polso.
Don Manuel e la sua trisnipote
Del centenario Manuel Picoitia non c’è traccia nella sua fattoria, ma sentiamo il rumore di un machete contro il fusto di una canna da zucchero. Guidati dal rumore, entriamo nella piantagione. Picoitia è in ginocchio e sta estirpando le erbacce. Il movimento del braccio non corrisponde alla forza o alla resistenza che ci si aspetterebbe da un anziano. Dà
una decina di colpi di seguito. Porta la lama all’altezza delle spalle e poi la fa ricadere a gran velocità fino a raggiungere il suo obiettivo. Ogni tanto si ferma, fa il punto della situazione e ricomincia.
Quando la guida lo chiama, Manuel Picoitia si gira, si toglie il cappellino da baseball e lo sventola.
Sembra che stia festeggiando qualcosa. È contento perché, come alla maggior parte degli anziani del mondo, anche a lui fa piacere ricevere delle visite. Indossa pantaloni scuri e una camicia bianca a maniche lunghe. “Andiamo a casa”, dice, avviandosi su per la salita che porta alla sua fattoria.
Si muove rapidamente, come se il terreno fosse pianeggiante. Picoitia è un uomo agile. È evidente che non si stanca facilmente. Per me è diverso, io non sono nato a Vilcabamba.
“Quanti anni ha, don Manuel?”. “Ho un secolo”. Una delle sue nipoti si avvicina e gli dice di dire la verità. A voce bassa mi racconta che ha l’abitudine di togliersi qualche anno. “Ne ho centoquattro”. “Su, sia sincero”.
Manuel Picoitia insiste: ha centoquattro anni. Non cambia versione, e non c’è modo di farlo confessare.
Ha avuto dieci igli, il triplo di nipoti e anche bisnipoti e trisnipoti.
Gli piace andare a ballare. Domani ha una festa, ma rimarrà solo f ino a mezzanotte.
Non ce la fa più a tirare avanti ino al mattino. Ultimamente la schiena gli dà qualche fastidio.
Qualche tempo fa è rimasto vedovo e dice di avere nostalgia di sua moglie, soprattutto per le sue doti di cuoca.
All’ingresso della sua casa c’è una panca di legno su cui don Manuel si siede e si sistema il cappello. Gli domando
cosa fa tutto il giorno, lui mi racconta che non lavora più.
“Ma quando siamo arrivati era nei campi”, gli dico. “Aveva il machete in mano e stava lavorando”.
Ma per Picoitia lavorare significa essere alle dipendenze di qualcun altro.
Guadagnarsi una paga, oltre a occuparsi dei suoi campi. Adesso gli è rimasta solo la seconda attività. Per portarla a termine si alza alle sei di mattina e non si ferma fino a sera.
“Fino all’anno scorso dovevo chiuderlo a chiave”, racconta la sua trisnipote.
“Alle tre di mattina veniva a svegliarmi perché voleva che gli preparassi il caffè.
Non mi lasciava dormire, voleva uscire presto per andare nei campi”.
“Beve molto caffè?”.
“Tutti i giorni”.
“E cosa mangia?”.
“Verdure, pesce, frutta. Molta frutta”.
Si vede che la trisnipote gli vuole molto bene. Sa ogni cosa che fa, sa quello che gli piace mangiare e ciò di cui ha bisogno durante il giorno. Gli accarezza continuamente la testa. Guardandoli, però, mi rendo conto che tutti tendiamo a considerare gli anziani come mascotte o come bambini, nel migliore dei casi.
Adorabili, buffi e con qualche vizio. Anche Víctor, a cui i centenari sono molto affezionati, ha insistito con José Medina
e con Manuel Picoitia perché cantassero una canzone.
La trisnipote ha una teoria per spiegare la longevità di Manuel Picoitia. Secondo lei dipende da quello che mangia.
Tutto naturale, coltivato in casa e senza pesticidi. La cucina dei Picoitia, insomma, porta a tutta la famiglia zuccheri, grassi, proteine e, allo stesso tempo, anche venti, trenta o quarant’anni di vita in più. Lei ne va iera e don Manuel le crede.
Picoitia farebbe felici i cultori del mangiar sano, con i loro partiti e i loro movimenti, come quello dei macrobiotici. Ma non i vegetariani, purtroppo, perché Picoitia, come anche José Medina, mangia la carne. E a pensarci bene neanche i macrobiotici, visto che i due centenari fumano chamico e bevono puro.
Non darebbe soddisfazione nemmeno alla società internazionale di cardiologia o alla commissione mondiale contro l’ipertensione. A Vilcabamba si mette molto sale su tutto il cibo. Per fortuna si salva il biologico, visto che qui gli alimenti non contengono pesticidi né agenti chimici.
Il problema è che in un’infinità di altri posti, nelle campagne e sulle montagne, si mangiano cose simili cucinate nello stesso modo e non si vive così tanto.
È evidente che non è tutto merito della natura incontaminata, ma siccome quest’idea di purezza piace a chi è ossessionato dal mangiar sano, qualsiasi teoria che la sostiene è considerata vera.
Mi siedo vicino a Manuel Picoitia e gli chiedo di togliersi il cappello per un’ultima fotograia.
“Oggi gli ho tagliato i capelli”, mi dice la trisnipote. “Da questa parte li aveva tutti bianchi. E adesso guardi, gli sono
tornati neri”. A Vilcabamba il numero delle donne supera quello degli uomini.
Il rapporto è di tre a due. Contrariamente a quanto succede nel resto del mondo, però, a Vilcabamba gli uomini vivono
più delle donne. Solo i maschi, infatti, sono riusciti finora a superare i centotrent’anni.
Ma anche le donne vivono a lungo. Succede spesso che abbiano figli dopo i cinquanta e ci sono diversi casi di parti dopo i sessanta.
una decina di colpi di seguito. Porta la lama all’altezza delle spalle e poi la fa ricadere a gran velocità fino a raggiungere il suo obiettivo. Ogni tanto si ferma, fa il punto della situazione e ricomincia.
Quando la guida lo chiama, Manuel Picoitia si gira, si toglie il cappellino da baseball e lo sventola.
Sembra che stia festeggiando qualcosa. È contento perché, come alla maggior parte degli anziani del mondo, anche a lui fa piacere ricevere delle visite. Indossa pantaloni scuri e una camicia bianca a maniche lunghe. “Andiamo a casa”, dice, avviandosi su per la salita che porta alla sua fattoria.
Si muove rapidamente, come se il terreno fosse pianeggiante. Picoitia è un uomo agile. È evidente che non si stanca facilmente. Per me è diverso, io non sono nato a Vilcabamba.
“Quanti anni ha, don Manuel?”. “Ho un secolo”. Una delle sue nipoti si avvicina e gli dice di dire la verità. A voce bassa mi racconta che ha l’abitudine di togliersi qualche anno. “Ne ho centoquattro”. “Su, sia sincero”.
Manuel Picoitia insiste: ha centoquattro anni. Non cambia versione, e non c’è modo di farlo confessare.
Ha avuto dieci igli, il triplo di nipoti e anche bisnipoti e trisnipoti.
Gli piace andare a ballare. Domani ha una festa, ma rimarrà solo f ino a mezzanotte.
Non ce la fa più a tirare avanti ino al mattino. Ultimamente la schiena gli dà qualche fastidio.
Qualche tempo fa è rimasto vedovo e dice di avere nostalgia di sua moglie, soprattutto per le sue doti di cuoca.
All’ingresso della sua casa c’è una panca di legno su cui don Manuel si siede e si sistema il cappello. Gli domando
cosa fa tutto il giorno, lui mi racconta che non lavora più.
“Ma quando siamo arrivati era nei campi”, gli dico. “Aveva il machete in mano e stava lavorando”.
Ma per Picoitia lavorare significa essere alle dipendenze di qualcun altro.
Guadagnarsi una paga, oltre a occuparsi dei suoi campi. Adesso gli è rimasta solo la seconda attività. Per portarla a termine si alza alle sei di mattina e non si ferma fino a sera.
“Fino all’anno scorso dovevo chiuderlo a chiave”, racconta la sua trisnipote.
“Alle tre di mattina veniva a svegliarmi perché voleva che gli preparassi il caffè.
Non mi lasciava dormire, voleva uscire presto per andare nei campi”.
“Beve molto caffè?”.
“Tutti i giorni”.
“E cosa mangia?”.
“Verdure, pesce, frutta. Molta frutta”.
Si vede che la trisnipote gli vuole molto bene. Sa ogni cosa che fa, sa quello che gli piace mangiare e ciò di cui ha bisogno durante il giorno. Gli accarezza continuamente la testa. Guardandoli, però, mi rendo conto che tutti tendiamo a considerare gli anziani come mascotte o come bambini, nel migliore dei casi.
Adorabili, buffi e con qualche vizio. Anche Víctor, a cui i centenari sono molto affezionati, ha insistito con José Medina
e con Manuel Picoitia perché cantassero una canzone.
La trisnipote ha una teoria per spiegare la longevità di Manuel Picoitia. Secondo lei dipende da quello che mangia.
Tutto naturale, coltivato in casa e senza pesticidi. La cucina dei Picoitia, insomma, porta a tutta la famiglia zuccheri, grassi, proteine e, allo stesso tempo, anche venti, trenta o quarant’anni di vita in più. Lei ne va iera e don Manuel le crede.
Picoitia farebbe felici i cultori del mangiar sano, con i loro partiti e i loro movimenti, come quello dei macrobiotici. Ma non i vegetariani, purtroppo, perché Picoitia, come anche José Medina, mangia la carne. E a pensarci bene neanche i macrobiotici, visto che i due centenari fumano chamico e bevono puro.
Non darebbe soddisfazione nemmeno alla società internazionale di cardiologia o alla commissione mondiale contro l’ipertensione. A Vilcabamba si mette molto sale su tutto il cibo. Per fortuna si salva il biologico, visto che qui gli alimenti non contengono pesticidi né agenti chimici.
Il problema è che in un’infinità di altri posti, nelle campagne e sulle montagne, si mangiano cose simili cucinate nello stesso modo e non si vive così tanto.
È evidente che non è tutto merito della natura incontaminata, ma siccome quest’idea di purezza piace a chi è ossessionato dal mangiar sano, qualsiasi teoria che la sostiene è considerata vera.
Mi siedo vicino a Manuel Picoitia e gli chiedo di togliersi il cappello per un’ultima fotograia.
“Oggi gli ho tagliato i capelli”, mi dice la trisnipote. “Da questa parte li aveva tutti bianchi. E adesso guardi, gli sono
tornati neri”. A Vilcabamba il numero delle donne supera quello degli uomini.
Il rapporto è di tre a due. Contrariamente a quanto succede nel resto del mondo, però, a Vilcabamba gli uomini vivono
più delle donne. Solo i maschi, infatti, sono riusciti finora a superare i centotrent’anni.
Ma anche le donne vivono a lungo. Succede spesso che abbiano figli dopo i cinquanta e ci sono diversi casi di parti dopo i sessanta.
Una dieta poco originale
Josefa Ocampo ha centocinque anni. Sono quasi le quattro del pomeriggio e sta per andare a dormire. Rimarrà a letto fino a domattina. Anche se a Vilcabamba il clima è mite e le temperature oscillano poco nel corso dell’anno, la maggior parte degli anziani ha freddo.
Perciò Josefa Ocampo – che indossa un cappellino di lana blu e bianco, una maglia a maniche corte e sopra una camicia e un maglione di lana – va a dormire.
Ha il tipico aspetto della nonna. È quasi cieca, non sente praticamente più ed è totalmente rassegnata. È facile volerle bene, perché non chiede mai niente.
I suoi nipoti mi raccontano che una volta era una donna imponente, ma che con l’andare degli anni si è rimpicciolita.
Non conosce la maggior parte dei suoi cinquanta nipoti, dei suoi venti bisnipoti e dei suoi dieci trisnipoti.
“La mia famiglia è tutta sparsa”, dice.
Come se fosse una condizione necessaria per continuare la conversazione, l’autista chiede a Josefa delle sue abitudini alimentari. Sembra programmato per gli stranieri che arrivano fino a Vilcabamba ossessionati dalla dieta della valle. Arrivano al paese convinti che la longevità entri dalla bocca e che se si fa attenzione a ciò che si mangia, oltre a rimanere belli, sarà difficile ammalarsi.
L’idea dell’importanza della dieta è così forte che sono riusciti a convincere perfino la gente della valle. Sono tutti sicuri che una dieta sana prolunghi la vita. E che a Vilcabamba si mangi una combinazione di frutta e verdura che non ha pari nel mondo.
“Yucca, mais, banane. Cose del genere”.
È una dieta naturale e priva di agenti inquinanti. Ma è simile a quella che si fa in altre valli, in cui i contadini coltivano le stesse cose nello stesso modo. Sarà anche sana, ma non è originale né esclusiva.
Non c’è molto da fare né molto da chiedere. La guida chiede a Josefa di cantarci Flores negras, una canzone d’amore. Lei non la ricorda, però ci recita una poesia, ricordo della guerra con il Perù. Parla di un ragazzo che saluta i genitori per andare alla frontiera e di “un altro, volenteroso, che non tornerà più dalla tomba”. I ricordi cominciano ad affiorare e Josefa si commuove parlando del suo cane. Si chiamava Asco (schifo).
Josefa Ocampo ha centocinque anni. Sono quasi le quattro del pomeriggio e sta per andare a dormire. Rimarrà a letto fino a domattina. Anche se a Vilcabamba il clima è mite e le temperature oscillano poco nel corso dell’anno, la maggior parte degli anziani ha freddo.
Perciò Josefa Ocampo – che indossa un cappellino di lana blu e bianco, una maglia a maniche corte e sopra una camicia e un maglione di lana – va a dormire.
Ha il tipico aspetto della nonna. È quasi cieca, non sente praticamente più ed è totalmente rassegnata. È facile volerle bene, perché non chiede mai niente.
I suoi nipoti mi raccontano che una volta era una donna imponente, ma che con l’andare degli anni si è rimpicciolita.
Non conosce la maggior parte dei suoi cinquanta nipoti, dei suoi venti bisnipoti e dei suoi dieci trisnipoti.
“La mia famiglia è tutta sparsa”, dice.
Come se fosse una condizione necessaria per continuare la conversazione, l’autista chiede a Josefa delle sue abitudini alimentari. Sembra programmato per gli stranieri che arrivano fino a Vilcabamba ossessionati dalla dieta della valle. Arrivano al paese convinti che la longevità entri dalla bocca e che se si fa attenzione a ciò che si mangia, oltre a rimanere belli, sarà difficile ammalarsi.
L’idea dell’importanza della dieta è così forte che sono riusciti a convincere perfino la gente della valle. Sono tutti sicuri che una dieta sana prolunghi la vita. E che a Vilcabamba si mangi una combinazione di frutta e verdura che non ha pari nel mondo.
“Yucca, mais, banane. Cose del genere”.
È una dieta naturale e priva di agenti inquinanti. Ma è simile a quella che si fa in altre valli, in cui i contadini coltivano le stesse cose nello stesso modo. Sarà anche sana, ma non è originale né esclusiva.
Non c’è molto da fare né molto da chiedere. La guida chiede a Josefa di cantarci Flores negras, una canzone d’amore. Lei non la ricorda, però ci recita una poesia, ricordo della guerra con il Perù. Parla di un ragazzo che saluta i genitori per andare alla frontiera e di “un altro, volenteroso, che non tornerà più dalla tomba”. I ricordi cominciano ad affiorare e Josefa si commuove parlando del suo cane. Si chiamava Asco (schifo).
Era inutile e cattivo, ma anche un grande amico.
Quando racconta qualcosa, lo fa al passato e finisce sempre la frase con l’espressione “ora non più”. Cantavo, ma ora non più. Ero sposata, ma ora non più. Lavoravo con mio padre, ma ora non più. Mi occupavo della casa, ma ora non più. Sembra che non faccia altro che aspettare, e nel frattempo cerca di mantenersi ben coperta. Non vuole sentire
freddo.
Oltre a vivere molto, gli abitanti di Vilcabamba muoiono in modi a cui noi non siamo abituati. Vanno a farsi il bagno e muoiono, escono per andare a lavorare e muoiono, vanno a dormire e non si svegliano più. Senza preavviso, ricoveri o litigi su chi deve farsene carico, né figli che si lamentano perché devono
prendersi cura dei genitori. Non arrivano mai a quella fase in cui ci si domanda se valga davvero la pena di continuare a vivere. Gli anziani di Vilcabamba si prendono cura di loro stessi finoalla fine. Poi, da un momento all’altro, muoiono. Senza familiari in attesa della fine nella sala d’aspetto di una clinica.
Non si ammalano, si spengono. Vivono una vecchiaia in cui non c’è bisogno di assistenza. In cui non ci sono i diktat dei medici né la paura dei familiari. Sono persone molto umili, ma quando arriva il loro momento se ne vanno come dei signori.
Mario Moreno Cantinlas era un attore famoso. Non passavano mai più di due anni senza che uscisse un suo film.
Nel 1978, però, fece pochissime apparizioni pubbliche. In seguito si scoprì che era a Vilcabamba, in incognito, in una casa nascosta da una fitta schiera di alberi.
Soffriva di cuore. I medici le avevano provate tutte, ma senza risultati. Andare a vivere nella valle era la sua unica speranza. Si dice che se è riuscito a lavorare ancora per alcuni anni è stato grazie a questo paesino. Ai fiumi che hanno ripulito le sue arterie e alla terra che ha diluito i suoi eccessi.
La guida Víctor Carpio chiama Vilcabamba il “centro dell’immunità cardiovascolare” e la “fucina della longevità”.
Qui nessuno si ammala di cuore, e quelli che arrivano malati guariscono con il tempo. Quando arrivò a Vilcabamba,
Nadao Kimura, assistente personale dell’ex primo ministro giapponese Yasuhiro Nakasone, non riusciva a fare più di venti passi. Non poteva fare di più: si sentiva soffocare, gli mancava l’aria. Il suo cuore era sfinito. Ma la sua insufficienza cardiaca, che i medici di Tokyo non erano riusciti a guarire, a Vilcabamba sparì in soli trentotto giorni. Il politico giapponese era così contento che chiese all’allora presidente dell’Ecuador il permesso di dare al suo paese natale, in un’isola a nord di Hokkaido, il nome di Vilcabamba. Voleva che il luogo in cui era nato si chiamasse come quello in cui aveva ricominciato a vivere.
Cantinlas e Kimura non solo le uniche celebrità che sono state a Vilcabamba.
Gli abitanti assicurano che anche altre star sono venute a passare qui un bel po’ di tempo. Soprattutto i cattivi di alcuni telefilm famosi. Come Jr di Dallas. Raccontano che, a furia di interpretare il ruolo del cattivo, si era rovinato la salute.
Così, per riprendersi, venne a Vilcabamba.
O come Jon Cypher, che nella serie Dynasty aveva interpretato uno dei più acerrimi nemici della famiglia Carrington. Cypher, che ha partecipato a moltissimi film e serie tv, ora è sposato con la proprietaria di un albergo di Vilcabamba.
Ci sono anche un astronauta e un generale dell’esercito degli Stati Uniti.
Nei dintorni del paese ci sono le case dei miliardari che vivono o si preparano a vivere il resto dei loro giorni in questa
zona. Alcune sono vere e proprie ville, con tutte le comodità del caso e un esercito di ecuadoriani pronti a servirli. Al bar El Punto, gli hippy che vendono gingilli
per strada dicono che quelli che arrivano alla ricerca del paradiso sono gli stessi che lo stanno distruggendo.
Torno in Argentina. Mio padre è ancora ricoverato. Quando arrivo in clinica è disperato. Scuote la testa da una parte
e dall’altra f ino a toccare con la guancia il cuscino. Lo hanno lasciato scoperto.
Quando racconta qualcosa, lo fa al passato e finisce sempre la frase con l’espressione “ora non più”. Cantavo, ma ora non più. Ero sposata, ma ora non più. Lavoravo con mio padre, ma ora non più. Mi occupavo della casa, ma ora non più. Sembra che non faccia altro che aspettare, e nel frattempo cerca di mantenersi ben coperta. Non vuole sentire
freddo.
Oltre a vivere molto, gli abitanti di Vilcabamba muoiono in modi a cui noi non siamo abituati. Vanno a farsi il bagno e muoiono, escono per andare a lavorare e muoiono, vanno a dormire e non si svegliano più. Senza preavviso, ricoveri o litigi su chi deve farsene carico, né figli che si lamentano perché devono
prendersi cura dei genitori. Non arrivano mai a quella fase in cui ci si domanda se valga davvero la pena di continuare a vivere. Gli anziani di Vilcabamba si prendono cura di loro stessi finoalla fine. Poi, da un momento all’altro, muoiono. Senza familiari in attesa della fine nella sala d’aspetto di una clinica.
Non si ammalano, si spengono. Vivono una vecchiaia in cui non c’è bisogno di assistenza. In cui non ci sono i diktat dei medici né la paura dei familiari. Sono persone molto umili, ma quando arriva il loro momento se ne vanno come dei signori.
Mario Moreno Cantinlas era un attore famoso. Non passavano mai più di due anni senza che uscisse un suo film.
Nel 1978, però, fece pochissime apparizioni pubbliche. In seguito si scoprì che era a Vilcabamba, in incognito, in una casa nascosta da una fitta schiera di alberi.
Soffriva di cuore. I medici le avevano provate tutte, ma senza risultati. Andare a vivere nella valle era la sua unica speranza. Si dice che se è riuscito a lavorare ancora per alcuni anni è stato grazie a questo paesino. Ai fiumi che hanno ripulito le sue arterie e alla terra che ha diluito i suoi eccessi.
La guida Víctor Carpio chiama Vilcabamba il “centro dell’immunità cardiovascolare” e la “fucina della longevità”.
Qui nessuno si ammala di cuore, e quelli che arrivano malati guariscono con il tempo. Quando arrivò a Vilcabamba,
Nadao Kimura, assistente personale dell’ex primo ministro giapponese Yasuhiro Nakasone, non riusciva a fare più di venti passi. Non poteva fare di più: si sentiva soffocare, gli mancava l’aria. Il suo cuore era sfinito. Ma la sua insufficienza cardiaca, che i medici di Tokyo non erano riusciti a guarire, a Vilcabamba sparì in soli trentotto giorni. Il politico giapponese era così contento che chiese all’allora presidente dell’Ecuador il permesso di dare al suo paese natale, in un’isola a nord di Hokkaido, il nome di Vilcabamba. Voleva che il luogo in cui era nato si chiamasse come quello in cui aveva ricominciato a vivere.
Cantinlas e Kimura non solo le uniche celebrità che sono state a Vilcabamba.
Gli abitanti assicurano che anche altre star sono venute a passare qui un bel po’ di tempo. Soprattutto i cattivi di alcuni telefilm famosi. Come Jr di Dallas. Raccontano che, a furia di interpretare il ruolo del cattivo, si era rovinato la salute.
Così, per riprendersi, venne a Vilcabamba.
O come Jon Cypher, che nella serie Dynasty aveva interpretato uno dei più acerrimi nemici della famiglia Carrington. Cypher, che ha partecipato a moltissimi film e serie tv, ora è sposato con la proprietaria di un albergo di Vilcabamba.
Ci sono anche un astronauta e un generale dell’esercito degli Stati Uniti.
Nei dintorni del paese ci sono le case dei miliardari che vivono o si preparano a vivere il resto dei loro giorni in questa
zona. Alcune sono vere e proprie ville, con tutte le comodità del caso e un esercito di ecuadoriani pronti a servirli. Al bar El Punto, gli hippy che vendono gingilli
per strada dicono che quelli che arrivano alla ricerca del paradiso sono gli stessi che lo stanno distruggendo.
Torno in Argentina. Mio padre è ancora ricoverato. Quando arrivo in clinica è disperato. Scuote la testa da una parte
e dall’altra f ino a toccare con la guancia il cuscino. Lo hanno lasciato scoperto.
Le gambe sembrano due ossa avvolte da un po’ di pelle. Ha una piaga sul tallone dovuta allo sfregamento contro il lenzuolo, come se, in preda al terrore, avesse cercato di scalare il letto al contrario per scappare. Cerca di strapparsi la sonda dal naso e di togliersi la maschera per l’ossigeno. La donna che si prende cura di lui vuole essere sostituita.
Sono tre notti che mio padre non dorme.
Il suo è un caso tipico per un anziano che vive in una grande città: ha ottantasei anni, è gravemente malato ed è stato ricoverato in ospedale. Non c’è nulla di strano.
“Non ce la faccio più. Tirami fuori di qui!”, dice lui, appena mi vede.
Gli dico di calmarsi e che andrò a parlare con il dottore.
“Aspetta!”, mi sussurra. Vuole che rimanga.
Mi vuole parlare. Apre gli occhi e fa uscire l’aria dai polmoni con fatica, sbuffando. È infuriato, intossicato dall’infezione, non ce la fa più, mi urla contro.
“Voglio cambiare vita”. Si sforza di sembrare calmo. “Cambiare radicalmente.
Come hai fatto tu qualche anno fa. Voglio andare a vivere vicino a una spiaggia. Non importa dove, basta che ci sia un centro di dialisi. Voglio una casa piccola e una finestra da cui si veda il mare”.
“D’accordo, papà, ma prima devi ririprenderti”. “D’accordo un corno!”, grida.
Poi abbassa la voce. “Tu puoi farlo. Hai fatto molte cose nella tua vita che sembravano impossibili. Portami da qualche
altra parte!”. Potrei farlo. Potrei addirittura caricarlo su un aereo e portarlo a Vilcabamba.
Potrei vendere la casa in cui vive e, per molto meno, comprargliene una in Ecuador. Vivrebbe ancora a lungo e io a novantacinque anni potrei continuare a prendermi cura di lui. Glielo devo, lui mi ha dato la vita, e non importa che adesso me la stia richiedendo indietro. Ma a Vilcabamba non c’è un centro di dialisi – fallirebbe per mancanza di pazienti – quindi purtroppo non posso portarlo laggiù.
Sono tre notti che mio padre non dorme.
Il suo è un caso tipico per un anziano che vive in una grande città: ha ottantasei anni, è gravemente malato ed è stato ricoverato in ospedale. Non c’è nulla di strano.
“Non ce la faccio più. Tirami fuori di qui!”, dice lui, appena mi vede.
Gli dico di calmarsi e che andrò a parlare con il dottore.
“Aspetta!”, mi sussurra. Vuole che rimanga.
Mi vuole parlare. Apre gli occhi e fa uscire l’aria dai polmoni con fatica, sbuffando. È infuriato, intossicato dall’infezione, non ce la fa più, mi urla contro.
“Voglio cambiare vita”. Si sforza di sembrare calmo. “Cambiare radicalmente.
Come hai fatto tu qualche anno fa. Voglio andare a vivere vicino a una spiaggia. Non importa dove, basta che ci sia un centro di dialisi. Voglio una casa piccola e una finestra da cui si veda il mare”.
“D’accordo, papà, ma prima devi ririprenderti”. “D’accordo un corno!”, grida.
Poi abbassa la voce. “Tu puoi farlo. Hai fatto molte cose nella tua vita che sembravano impossibili. Portami da qualche
altra parte!”. Potrei farlo. Potrei addirittura caricarlo su un aereo e portarlo a Vilcabamba.
Potrei vendere la casa in cui vive e, per molto meno, comprargliene una in Ecuador. Vivrebbe ancora a lungo e io a novantacinque anni potrei continuare a prendermi cura di lui. Glielo devo, lui mi ha dato la vita, e non importa che adesso me la stia richiedendo indietro. Ma a Vilcabamba non c’è un centro di dialisi – fallirebbe per mancanza di pazienti – quindi purtroppo non posso portarlo laggiù.
Vilcabamba vivono di più e si ammalano meno. Il numero di centenari è dieci volte più alto che altrove. La spiegazione che va per la maggiore è che nel paese si mangia sano, non si consumano prodotti industriali e nessuno usa pesticidi nei campi. La gente ne è convinta e lo ripete fino allo sfinimento. Quello che non riesco a capire è perché nell’antichità,
quando i pesticidi non erano ancora stati scoperti e mangiare sano era inevitabile, la gente viveva meno di adesso. Perché quando non esistevano prodotti industriali e la terra non era inquinata gli esseri umani non solo non vivevano fino a centocinquant’anni, ma morivano mediamente verso i trentacinque. L’inquinamento può essere letale, non c’è dubbio, ma la sua assenza non spiega perché la vita si prolunghi oltre i limiti che conosciamo. Entra il caporeparto. È venuto nella stanza per parlare con me. “Suo padre sta meglio. Le analisi hanno cominciato a dare risultati positivi. Tra qualche giorno sarà dimesso”.
Il medico esce e arrivano gli infermieri. Sono venuti a prenderlo. Poco prima che lo portino via, si volta verso di me e mi dice, a voce bassa: “Ricordati di quello che ci siamo detti”. Torno a Vilcabamba convinto di farlo per mia scelta. Durante il viaggio ho cercato di mettere ordine tra le mie idee. A Vilcabamba vivono di più e si ammalano meno. Il numero di centenari è dieci volte più alto che altrove. La spiegazione che va per la maggiore è che nel paese si mangia sano, non si consumano prodotti industriali e nessuno usa pesticidi nei campi. La gente ne è convinta e lo ripete fino allo sinimento. Quello che non riesco a capire è perché nell’antichità, quando i pesticidi non erano ancora stati scoperti e mangiare sano era inevitabile, la gente viveva meno di adesso. Perché quando non esistevano prodotti industriali e la terra non era inquinata gli esseri umani non solo non vivevano fino a centocinquant’anni, ma morivano mediamente verso i trentacinque. L’inquinamento può essere letale, non c’è dubbio, ma la sua assenza non spiega perché la vita si prolunghi oltre i limiti che conosciamo.
quando i pesticidi non erano ancora stati scoperti e mangiare sano era inevitabile, la gente viveva meno di adesso. Perché quando non esistevano prodotti industriali e la terra non era inquinata gli esseri umani non solo non vivevano fino a centocinquant’anni, ma morivano mediamente verso i trentacinque. L’inquinamento può essere letale, non c’è dubbio, ma la sua assenza non spiega perché la vita si prolunghi oltre i limiti che conosciamo. Entra il caporeparto. È venuto nella stanza per parlare con me. “Suo padre sta meglio. Le analisi hanno cominciato a dare risultati positivi. Tra qualche giorno sarà dimesso”.
Il medico esce e arrivano gli infermieri. Sono venuti a prenderlo. Poco prima che lo portino via, si volta verso di me e mi dice, a voce bassa: “Ricordati di quello che ci siamo detti”. Torno a Vilcabamba convinto di farlo per mia scelta. Durante il viaggio ho cercato di mettere ordine tra le mie idee. A Vilcabamba vivono di più e si ammalano meno. Il numero di centenari è dieci volte più alto che altrove. La spiegazione che va per la maggiore è che nel paese si mangia sano, non si consumano prodotti industriali e nessuno usa pesticidi nei campi. La gente ne è convinta e lo ripete fino allo sinimento. Quello che non riesco a capire è perché nell’antichità, quando i pesticidi non erano ancora stati scoperti e mangiare sano era inevitabile, la gente viveva meno di adesso. Perché quando non esistevano prodotti industriali e la terra non era inquinata gli esseri umani non solo non vivevano fino a centocinquant’anni, ma morivano mediamente verso i trentacinque. L’inquinamento può essere letale, non c’è dubbio, ma la sua assenza non spiega perché la vita si prolunghi oltre i limiti che conosciamo.
La fabbrica del chamico Isabel Aguirre ha settantacinque anni.
Sembra molto più giovane. È la proprietaria della pensione di Vilcabamba, e si vede da come si muove nel giardino, tra i tavoli apparecchiati all’aria aperta, con il suo vestito rosso e la sua collana di perle bianche. Ha i capelli scuri e lunghi. Li porta legati, lasciando scoperto un volto deciso e gradevole. Oltre all’osteria possiede un allevamento nel nord dell’Ecuador.
Quando viveva lì camminava a stento.
Soffriva di una malattia cardiovascolare in stato avanzato. Le sue arterie si erano indurite e il cuore doveva fare uno sforzo enorme per pompare il sangue.
Come qualsiasi muscolo che viene sottoposto a uno sforzo intenso, il cuore di Isabel aveva cominciato a crescere.
Avere un cuore grande è sempre un problema. L’ossigeno non basta mai. Per questo fa male, soffre e non funziona come dovrebbe. Aguirre sentiva che le mancava l’aria. Le sue giornate erano sempre in salita e di notte era così agitata che non riusciva a riposare. Le faceva male il petto ed era completamente abbattuta. Andava dal dottore, gli raccontava come stava e si faceva dare una nuova ricetta da consegnare al farmacista.
C’era sempre una nuova medicina da aggiungere alla lista di quelle che prendeva ogni giorno. Molti rimedi ma pochi miglioramenti.
Quando le hanno proposto di venire a Vilcabamba ha accettato senza molte speranze. Ma poco dopo essere arrivata nella valle ha ricominciato, con sua grande sorpresa, a respirare. Poteva camminare senza affannarsi, come quando era molto giovane e camminava per la sua proprietà senza bisogno di fermarsi a riposare. La sua pressione arteriosa è diminuita ino a raggiungere livelli normali, e adesso se la cava prendendo solo una pastiglia al giorno. In realtà non ne ha bisogno. Lo fa per non dare un dispiacere al dottore. Quello di cui ha bisogno è rimanere a Vilcabamba per sempre. Per questo ha costruito la sua pensione.
Le domando come vanno gli affari. Bene, mi risponde. Dice che da quando è cominciato il progetto San Joaquín ci sono molti stranieri.
Il San Joaquín è una struttura privata, un’enorme tenuta divisa in lotti a due chilometri dal paese, tra le Ande e il fiume.
È per chi sogna di comprarsi un’assicurazione per la longevità. Un sogno che non è per tutti. Il progetto è guidato da Joe Simonetta, laureato alla Harvard divinity school (uno degli istituti dell’università di Harvard, specializzato nello studio della religione). La pubblicità è molto esplicita: “Unisciti a noi, stiamo cercando un gruppo di persone di alta qualità”. Isabel mi spiega cosa si intende per gente di alta qualità.
Sono quelli che hanno abitudini salutari sono gentili con chi li circonda e rispettano la natura. Chi potrebbe mai opporsi a queste tre regole? Sembrano inoffensive. Eppure, il fatto che ci sia gente di alta qualità comporta che ce ne sia altra, la maggior parte, di bassa qualità.
La vicinanza del tesoro della longevità risveglia il peggio dentro ognuno di noi.
Isabel Aguirre vuole restituire un po’ di tutta la salute che ha ricevuto a Vilcabamba.
Per questo due volte a settimana riunisce le centenarie sotto un pergolato bianco in uno dei luoghi più freschi del suo giardino. Passano il pomeriggio a raccontarsi le loro cose mentre preparano pazientemente sigarette di chamico.
È un modo per dargli lavoro, realizzando un prodotto locale, e anche per mantenerle socialmente attive.
Ma le anziane non hanno bisogno di molto aiuto, preparano le sigarette con abilità perché nessuna di loro soffre né soffrirà mai di reumatismi. Inoltre – e c’è da invidiarle – lo fanno senza occhiali.
Con quest’attività possono guadagnare un po’ di soldi. Il chamico è facile da vendere. La cosa può essere giudicata in
due modi, a seconda che uno guardi il mondo a senso unico o sia pronto ad adattarsi al contesto. Nel primo caso si
potrebbe pensare che le centenarie fanno parte di un presunto cartello di stupefacenti a Vilcabamba; nel secondo, che sono ancora le nonne della valle. E poi, chi ha l’autorità per dire alla gente di Vilcabamba che quello che consumano può fargli male? Ma non c’è niente da fare, c’è sempre qualcuno pronto a farlo.
Il giorno in cui Yukio Yamori, professore dell’università di Kyoto, ha chiamato a raccolta la gente di Vilcabamba in questa piazza, si sono presentati quasi tutti. Yamori, che insegna anche ad Harvard, è un’autorità quando si tratta di dare consigli su come mantenersi in salute.
Ha studiato i longevi di Okinawa e ha stabilito quali abitudini ritardano la comparsa dell’arteriosclerosi. Yamori dice che il segreto sta nella dieta. Che conclusione originale! Cento grammi di pesce al giorno, venticinque di soia e niente sale.
Quando è arrivato a Vilcabamba ha notato che alcuni dati non combaciavano.
A differenza di quanto succede sull’isola di Okinawa, nella valle ci sono più longevi che longeve, si mangia pochissimo pesce e la cucina giapponese è totalmente sconosciuta. Inoltre gli abitanti mettono il sale dappertutto. Nonostante questo la loro pressione arteriosa è decisamente più bassa di quella degli altri ecuadoriani e gli infarti sono una vera rarità.
Alla fine della sua ricerca, prima di tornare in patria, Yamori ha fatto un’arringa nella piazza di Vilcabamba. Ha chiesto alla gente di non consumare tanto sale: la quantità che usavano era molto superiore a quella raccomandabile.
Sembra molto più giovane. È la proprietaria della pensione di Vilcabamba, e si vede da come si muove nel giardino, tra i tavoli apparecchiati all’aria aperta, con il suo vestito rosso e la sua collana di perle bianche. Ha i capelli scuri e lunghi. Li porta legati, lasciando scoperto un volto deciso e gradevole. Oltre all’osteria possiede un allevamento nel nord dell’Ecuador.
Quando viveva lì camminava a stento.
Soffriva di una malattia cardiovascolare in stato avanzato. Le sue arterie si erano indurite e il cuore doveva fare uno sforzo enorme per pompare il sangue.
Come qualsiasi muscolo che viene sottoposto a uno sforzo intenso, il cuore di Isabel aveva cominciato a crescere.
Avere un cuore grande è sempre un problema. L’ossigeno non basta mai. Per questo fa male, soffre e non funziona come dovrebbe. Aguirre sentiva che le mancava l’aria. Le sue giornate erano sempre in salita e di notte era così agitata che non riusciva a riposare. Le faceva male il petto ed era completamente abbattuta. Andava dal dottore, gli raccontava come stava e si faceva dare una nuova ricetta da consegnare al farmacista.
C’era sempre una nuova medicina da aggiungere alla lista di quelle che prendeva ogni giorno. Molti rimedi ma pochi miglioramenti.
Quando le hanno proposto di venire a Vilcabamba ha accettato senza molte speranze. Ma poco dopo essere arrivata nella valle ha ricominciato, con sua grande sorpresa, a respirare. Poteva camminare senza affannarsi, come quando era molto giovane e camminava per la sua proprietà senza bisogno di fermarsi a riposare. La sua pressione arteriosa è diminuita ino a raggiungere livelli normali, e adesso se la cava prendendo solo una pastiglia al giorno. In realtà non ne ha bisogno. Lo fa per non dare un dispiacere al dottore. Quello di cui ha bisogno è rimanere a Vilcabamba per sempre. Per questo ha costruito la sua pensione.
Le domando come vanno gli affari. Bene, mi risponde. Dice che da quando è cominciato il progetto San Joaquín ci sono molti stranieri.
Il San Joaquín è una struttura privata, un’enorme tenuta divisa in lotti a due chilometri dal paese, tra le Ande e il fiume.
È per chi sogna di comprarsi un’assicurazione per la longevità. Un sogno che non è per tutti. Il progetto è guidato da Joe Simonetta, laureato alla Harvard divinity school (uno degli istituti dell’università di Harvard, specializzato nello studio della religione). La pubblicità è molto esplicita: “Unisciti a noi, stiamo cercando un gruppo di persone di alta qualità”. Isabel mi spiega cosa si intende per gente di alta qualità.
Sono quelli che hanno abitudini salutari sono gentili con chi li circonda e rispettano la natura. Chi potrebbe mai opporsi a queste tre regole? Sembrano inoffensive. Eppure, il fatto che ci sia gente di alta qualità comporta che ce ne sia altra, la maggior parte, di bassa qualità.
La vicinanza del tesoro della longevità risveglia il peggio dentro ognuno di noi.
Isabel Aguirre vuole restituire un po’ di tutta la salute che ha ricevuto a Vilcabamba.
Per questo due volte a settimana riunisce le centenarie sotto un pergolato bianco in uno dei luoghi più freschi del suo giardino. Passano il pomeriggio a raccontarsi le loro cose mentre preparano pazientemente sigarette di chamico.
È un modo per dargli lavoro, realizzando un prodotto locale, e anche per mantenerle socialmente attive.
Ma le anziane non hanno bisogno di molto aiuto, preparano le sigarette con abilità perché nessuna di loro soffre né soffrirà mai di reumatismi. Inoltre – e c’è da invidiarle – lo fanno senza occhiali.
Con quest’attività possono guadagnare un po’ di soldi. Il chamico è facile da vendere. La cosa può essere giudicata in
due modi, a seconda che uno guardi il mondo a senso unico o sia pronto ad adattarsi al contesto. Nel primo caso si
potrebbe pensare che le centenarie fanno parte di un presunto cartello di stupefacenti a Vilcabamba; nel secondo, che sono ancora le nonne della valle. E poi, chi ha l’autorità per dire alla gente di Vilcabamba che quello che consumano può fargli male? Ma non c’è niente da fare, c’è sempre qualcuno pronto a farlo.
Il giorno in cui Yukio Yamori, professore dell’università di Kyoto, ha chiamato a raccolta la gente di Vilcabamba in questa piazza, si sono presentati quasi tutti. Yamori, che insegna anche ad Harvard, è un’autorità quando si tratta di dare consigli su come mantenersi in salute.
Ha studiato i longevi di Okinawa e ha stabilito quali abitudini ritardano la comparsa dell’arteriosclerosi. Yamori dice che il segreto sta nella dieta. Che conclusione originale! Cento grammi di pesce al giorno, venticinque di soia e niente sale.
Quando è arrivato a Vilcabamba ha notato che alcuni dati non combaciavano.
A differenza di quanto succede sull’isola di Okinawa, nella valle ci sono più longevi che longeve, si mangia pochissimo pesce e la cucina giapponese è totalmente sconosciuta. Inoltre gli abitanti mettono il sale dappertutto. Nonostante questo la loro pressione arteriosa è decisamente più bassa di quella degli altri ecuadoriani e gli infarti sono una vera rarità.
Alla fine della sua ricerca, prima di tornare in patria, Yamori ha fatto un’arringa nella piazza di Vilcabamba. Ha chiesto alla gente di non consumare tanto sale: la quantità che usavano era molto superiore a quella raccomandabile.
Trovare un senso
Wilson Correa fa il dottore a Vilcabamba da venticinque anni. Incarna la memoria sanitaria della valle. Mi riceve di
martedì mattina, tra un paziente e l’altro, in uno degli ambulatori esterni dell’ospedale Kokichi Otani. Un ambulatorio
ecuadoriano dal nome giapponese.
Nel suo studio c’è una barella, un armadio di vetro e metallo, una scrivania e tre sedie.
Non c’è nessun tipo di strumento, a parte un misuratore di pressione e uno stetoscopio, che Correa conserva arrotolato in una tasca. Nessun macchinario che possa essere considerato di alta tecnologia.
Ma c’è una finestra che dà su una strada ampia e polverosa, che farebbe invidia a qualsiasi istituzione sanitaria: la avenida de la Eterna juventud, il viale dell’eterna giovinezza. “Albertano Rojas. Centoventisette anni. Era un mio paziente. Non gli piaceva venire a farsi visitare, ma i suoi familiari lo costringevano”.
“Per quale motivo veniva da lei?”. “Verso la fine aveva qualche sintomo di senilità: si dimenticava delle cose e non riconosceva i suoi familiari”.
Il dottor Wilson Correa è convinto che le persone che arrivano a Vilcabamba con problemi di cuore guariscono, soprattutto quelli che soffrono di ipertensione.
Lui stesso ne ha curati molti.
Senza intervenire più di tanto, li ha visti migliorare e smettere di prendere le medicine.
Racconta che sono pochi anche i casi di persone con diabete o altre malattie metaboliche.
“Non c’è traccia di osteoporosi (la demineralizzazione delle ossa, frequente negli anziani) né di pazienti con il cancro”.
“Però, dottore, sono tutte patologie diverse, per origine ed effetti, che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra”.
“Io le dico quello che vedo”. Non mi convince. Non ha senso pensare che a Vilcabamba ci sia un’unica sostanza che guarisce qualsiasi malattia, agendo su tutti gli organi, indipendentemente dal fatto che le loro cellule, funzioni e strutture sono radicalmente diverse l’una dall’altra. Sembra magia.
L’effetto di un elisir onnipotente.
C’è un’altra possibilità: qualcosa ritarda l’invecchiamento. Nella valle c’è qualcosa che rallenta l’inesorabile processo
degenerativo che colpisce le cellule del nostro corpo. Forse guarire dalla vecchiaia oggi è complicato e impensabile come secoli fa lo era curare la tubercolosi.
“A Vilcabamba la gente mangia sano”, dice Correa. “Come le dicevo, qui si mangia molto sano, non ci sono pesticidi. La gente fa una bella colazione la mattina e questo aiuta molto. L’aria è pura. In questa zona cresce il wilco, l’albero tipico di Vilcabamba, che produce molto ossigeno.
E poi c’è la famiglia. I legami familiari sono molto forti. Il patriarca è rispettato e mantiene tutti uniti. Anche se è autonomo, c’è sempre qualcuno con lui. È considerato il capofamiglia. Questa unione familiare e questa attenzione per il patriarca sono fondamentali”.
“Scusi, dottore, ma ho visto un centenario che vive per strada”.
“Sì, ma il clima qui è mite e comunque si tratta di casi isolati. L’importanza della famiglia è vitale. È per questo che quando uno dei centenari muore i familiari lo vegliano per tre giorni. Lo considerano un esempio: è stato un brav’uomo, pagava i suoi debiti. L’onore li fa vivere molto.
Non ci sono infedeltà né inganni né truffe”. “Un paradiso”. “Esatto. Qui i suoni che si sentono sono solo quelli della natura. Pensi che bello: i centenari escono a fare una passeggiata e non ci sono rumori fastidiosi di macchine o di gente stressata che corre per andare a guadagnare lo stipendio”. “Allora perché vengono da lei?”. “Poliparassitosi. È il biglietto da visita del contadino. Vengono da me con vari tipi di parassiti, soprattutto intestinali”.
“Fino a che età riescono ad avere figli?”. “Eulogio Carpio, che aveva più di novant’anni, si è sposato con Julia León, una donna molto più giovane di lui. Hanno avuto tre figli. Dopo aver parlato con lui e con molti altri come lui, sono arrivato a una conclusione: i centenari fanno sesso frequente e di buona qualità”. Anni fa, mi racconta, è arrivata nel paese una
straniera, non ricorda se polacca o tedesca.
Stava scrivendo un libro: come fare l’amore con un centenario. Era antropologa e pagava i vecchietti perché facessero
sesso con lei.
“È rimasta a lungo?”. “Non molto. Ha finito i soldi prima di quanto si aspettasse”.
Fine dell’intervista. So che sono in corso alcuni studi per identiicare i geni legati alla longevità. Per adesso le ricerche riguardano il Caenorhabditis Elegans, un verme ermafrodita e trasparente.
Anche se per alcuni il fatto che sia verme, ermafrodita e trasparente non lo rende necessariamente diverso dal genere umano, la verità è che fino a questo momento le conclusioni tratte sul C. Elegans non sono del tutto applicabili all’uomo.
Non ho trovato nessuna ricerca sui modelli genetici di Vilcabamba, ma ci sono alcuni dati da tenere in considerazione. Gli abitanti della valle provengono da luoghi diversi. Non costituiscono una razza né una comunità chiusa che si è preservata mantenendosi isolata dagli altri. Gli stranieri che arrivano a Vilcabamba dopo un po’ si sentono meglio, mentre quelli che ci sono nati e si trasferiscono altrove vivono molto meno di quelli che rimangono nel paese per tutta la vita. Ci sono esempi che lo confermano. Non è raro, infatti, che gli ecuadoriani vadano a lavorare fuori dal paese.
Le rimesse che mandano ai loro familiari sono un’importante fonte di sostentamento.
Wilson Correa fa il dottore a Vilcabamba da venticinque anni. Incarna la memoria sanitaria della valle. Mi riceve di
martedì mattina, tra un paziente e l’altro, in uno degli ambulatori esterni dell’ospedale Kokichi Otani. Un ambulatorio
ecuadoriano dal nome giapponese.
Nel suo studio c’è una barella, un armadio di vetro e metallo, una scrivania e tre sedie.
Non c’è nessun tipo di strumento, a parte un misuratore di pressione e uno stetoscopio, che Correa conserva arrotolato in una tasca. Nessun macchinario che possa essere considerato di alta tecnologia.
Ma c’è una finestra che dà su una strada ampia e polverosa, che farebbe invidia a qualsiasi istituzione sanitaria: la avenida de la Eterna juventud, il viale dell’eterna giovinezza. “Albertano Rojas. Centoventisette anni. Era un mio paziente. Non gli piaceva venire a farsi visitare, ma i suoi familiari lo costringevano”.
“Per quale motivo veniva da lei?”. “Verso la fine aveva qualche sintomo di senilità: si dimenticava delle cose e non riconosceva i suoi familiari”.
Il dottor Wilson Correa è convinto che le persone che arrivano a Vilcabamba con problemi di cuore guariscono, soprattutto quelli che soffrono di ipertensione.
Lui stesso ne ha curati molti.
Senza intervenire più di tanto, li ha visti migliorare e smettere di prendere le medicine.
Racconta che sono pochi anche i casi di persone con diabete o altre malattie metaboliche.
“Non c’è traccia di osteoporosi (la demineralizzazione delle ossa, frequente negli anziani) né di pazienti con il cancro”.
“Però, dottore, sono tutte patologie diverse, per origine ed effetti, che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra”.
“Io le dico quello che vedo”. Non mi convince. Non ha senso pensare che a Vilcabamba ci sia un’unica sostanza che guarisce qualsiasi malattia, agendo su tutti gli organi, indipendentemente dal fatto che le loro cellule, funzioni e strutture sono radicalmente diverse l’una dall’altra. Sembra magia.
L’effetto di un elisir onnipotente.
C’è un’altra possibilità: qualcosa ritarda l’invecchiamento. Nella valle c’è qualcosa che rallenta l’inesorabile processo
degenerativo che colpisce le cellule del nostro corpo. Forse guarire dalla vecchiaia oggi è complicato e impensabile come secoli fa lo era curare la tubercolosi.
“A Vilcabamba la gente mangia sano”, dice Correa. “Come le dicevo, qui si mangia molto sano, non ci sono pesticidi. La gente fa una bella colazione la mattina e questo aiuta molto. L’aria è pura. In questa zona cresce il wilco, l’albero tipico di Vilcabamba, che produce molto ossigeno.
E poi c’è la famiglia. I legami familiari sono molto forti. Il patriarca è rispettato e mantiene tutti uniti. Anche se è autonomo, c’è sempre qualcuno con lui. È considerato il capofamiglia. Questa unione familiare e questa attenzione per il patriarca sono fondamentali”.
“Scusi, dottore, ma ho visto un centenario che vive per strada”.
“Sì, ma il clima qui è mite e comunque si tratta di casi isolati. L’importanza della famiglia è vitale. È per questo che quando uno dei centenari muore i familiari lo vegliano per tre giorni. Lo considerano un esempio: è stato un brav’uomo, pagava i suoi debiti. L’onore li fa vivere molto.
Non ci sono infedeltà né inganni né truffe”. “Un paradiso”. “Esatto. Qui i suoni che si sentono sono solo quelli della natura. Pensi che bello: i centenari escono a fare una passeggiata e non ci sono rumori fastidiosi di macchine o di gente stressata che corre per andare a guadagnare lo stipendio”. “Allora perché vengono da lei?”. “Poliparassitosi. È il biglietto da visita del contadino. Vengono da me con vari tipi di parassiti, soprattutto intestinali”.
“Fino a che età riescono ad avere figli?”. “Eulogio Carpio, che aveva più di novant’anni, si è sposato con Julia León, una donna molto più giovane di lui. Hanno avuto tre figli. Dopo aver parlato con lui e con molti altri come lui, sono arrivato a una conclusione: i centenari fanno sesso frequente e di buona qualità”. Anni fa, mi racconta, è arrivata nel paese una
straniera, non ricorda se polacca o tedesca.
Stava scrivendo un libro: come fare l’amore con un centenario. Era antropologa e pagava i vecchietti perché facessero
sesso con lei.
“È rimasta a lungo?”. “Non molto. Ha finito i soldi prima di quanto si aspettasse”.
Fine dell’intervista. So che sono in corso alcuni studi per identiicare i geni legati alla longevità. Per adesso le ricerche riguardano il Caenorhabditis Elegans, un verme ermafrodita e trasparente.
Anche se per alcuni il fatto che sia verme, ermafrodita e trasparente non lo rende necessariamente diverso dal genere umano, la verità è che fino a questo momento le conclusioni tratte sul C. Elegans non sono del tutto applicabili all’uomo.
Non ho trovato nessuna ricerca sui modelli genetici di Vilcabamba, ma ci sono alcuni dati da tenere in considerazione. Gli abitanti della valle provengono da luoghi diversi. Non costituiscono una razza né una comunità chiusa che si è preservata mantenendosi isolata dagli altri. Gli stranieri che arrivano a Vilcabamba dopo un po’ si sentono meglio, mentre quelli che ci sono nati e si trasferiscono altrove vivono molto meno di quelli che rimangono nel paese per tutta la vita. Ci sono esempi che lo confermano. Non è raro, infatti, che gli ecuadoriani vadano a lavorare fuori dal paese.
Le rimesse che mandano ai loro familiari sono un’importante fonte di sostentamento.
Nessuna rivelazione
Tutto porterebbe a pensare che la longevità, almeno a Vilcabamba, non sia ereditaria e neanche genetica, ma la conseguenza di qualcosa che succede nella valle. E nella valle, oltre al poco visitato dottor Correa, non c’è un sistema sanitario paragonabile a quello delle città. La gente vive senza bisogno di aggrapparsi alle medicine, senza ricoverarsi in cliniche per guarire da terribili malattie (di cui peraltro non soffrono). Più che certezze sulle tecniche soisticate per vivere molto, ci sono le prove di una vita semplice, austera. Non c’è molto altro da vedere.
Tutto porterebbe a pensare che la longevità, almeno a Vilcabamba, non sia ereditaria e neanche genetica, ma la conseguenza di qualcosa che succede nella valle. E nella valle, oltre al poco visitato dottor Correa, non c’è un sistema sanitario paragonabile a quello delle città. La gente vive senza bisogno di aggrapparsi alle medicine, senza ricoverarsi in cliniche per guarire da terribili malattie (di cui peraltro non soffrono). Più che certezze sulle tecniche soisticate per vivere molto, ci sono le prove di una vita semplice, austera. Non c’è molto altro da vedere.
Perché le fotografie che ho scattato non mi convincono? Probabilmente perché sono semplicemente foto di anziani.
La foto di un uomo di centoquindici anni a Vilcabamba è uguale a quella di un settantacinquenne di un qualsiasi altro paese.
Per questo insospettisce. Non è un documento, non è inconfutabile. Lo stesso vale per le interviste. Niente di quello che raccontano gli anziani ha l’effetto di una rivelazione. Per fare in modo che le loro parole acquistino un signiicato particolare, bisogna fare molta attenzione a quello che dicono e avere già un’idea sull’argomento.
L’esperienza non elaborata è una conoscenza precaria. Lo dimostra il fatto che i centenari che ho intervistato fanno una vita così dura che molti sarebbero disposti a regalare gli ultimi quarant’anni della loro vita
La foto di un uomo di centoquindici anni a Vilcabamba è uguale a quella di un settantacinquenne di un qualsiasi altro paese.
Per questo insospettisce. Non è un documento, non è inconfutabile. Lo stesso vale per le interviste. Niente di quello che raccontano gli anziani ha l’effetto di una rivelazione. Per fare in modo che le loro parole acquistino un signiicato particolare, bisogna fare molta attenzione a quello che dicono e avere già un’idea sull’argomento.
L’esperienza non elaborata è una conoscenza precaria. Lo dimostra il fatto che i centenari che ho intervistato fanno una vita così dura che molti sarebbero disposti a regalare gli ultimi quarant’anni della loro vita
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